[dal Bollettino 61]
Dibattito a proposito della lettera di Simone Weil a Georges Bernanos. “Témoins”, n. 8, primavera 1955
a cura di Jean-Paul Samson
Interventi di Bernard von Brentano, Albert Camus, Claude Le Maguet [pseud. di Jean Salives], Gaston Leval [pseud. di Pierre Robert Pille], Louis Mercier Vega [pseud. di Charles Cortvrint], Pierre Monatte
La lettera di Simone Weil pubblicata sul numero scorso della nostra rivista ha suscitato, com’era prevedibile, un ampio dibattito. Ecco la prima testimonianza, estratta da una lettera di Le Maguet:
“Innanzitutto: ah! Questo testo di Simone Weil… era esattamente ciò di cui avevo una gran voglia in questo momento, e lei era la sola a potermelo dare”.
Ma qualche giorno dopo Monatte mi scriveva invece:
“Il testo di Simone Weil è una gran bella cosa, ma a parer mio lo si sarebbe dovuto presentare come un documento che non si può ignorare, ma non come l’articolo d’apertura. Così sembra che ‘Témoins’ lo faccia suo. E di colpo dà al numero un tono spiazzante”.
Senza volermi permettere qui lunghi commenti personali e senza dunque riportare ciò che ho risposto a Monatte (come alla lettera di Mercier che si leggerà più avanti) – in sintesi che la lettera di Simone Weil non deve essere letta come un testo politico ma come una testimonianza che si rivolge a tutti noi, qualunque siano le nostre posizioni – mi sono reso conto che i malintesi temuti da Monatte non erano un pericolo illusorio, e anzi potevano spingersi ben oltre a quanto da lui paventato, quando qualche giorno più tardi lo scrittore tedesco Bernard von Brentano mi ha scritto da Wiesbaden:
“Avete fatto bene a riprodurre la lettera di Simone Weil. Sono pochi coloro che vogliono accettare la verità sulla spaventosa decadenza della sedicente sinistra, ma a lei non si può non credere, ed è molto importante”.
Non ho potuto fare a meno di rispondere così:
“Ho letto non senza dispiacere, e con una certa indignazione, ciò che mi scrive a proposito della lettera di Simone Weil. Mio Dio! Non l’ho pubblicata perché se ne concluda che la sinistra sia ormai degenerata. La posizione di Weil è puramente etica, ed è in nome dell’etica, e solo dell’etica, che ella denuncia l’essenza malefica della violenza e di ogni potere”.
Adesso estraggo alcuni passaggi da una lettera di Gaston Leval:
“In primo luogo è una testimonianza. Ciò che S.W. dice a proposito della ferocia della guerra civile spagnola è vero. Come è vero ciò che scrivono gli scrittori imparziali su ogni guerra civile e ogni rivoluzione che sia durata abbastanza a lungo perché la lotta armata abbia generato l’abitudine di uccidere senza pietà e senza rimorsi. Non ho conosciuto i fatti che lei cita, ma in fin dei conti io lo so”.
Leval evoca poi le atrocità più generalizzate commesse dai franchisti e continua in questi termini:
“Un altro aspetto da tenere in considerazione per giudicare quella guerra antifascista/rivoluzione, o più esattamente per giudicare la CNT durante quel periodo, è la straordinaria opera di trasformazione sociale compiuta dai militanti di questa organizzazione sindacale anarchica. Si dice, a ragione, che la Spagna è il paese dei contrasti. Ecco ciò che contrasta con l’“inumana” e “impietosa” condotta degli uomini della Confederación Nacional del Trabajo e della Federación Anarquista Ibérica: la socializzazione delle terre, l’organizzazione delle collettività agrarie dove, in un lasso di tempo straordinariamente breve, si è creato il mondo nuovo sognato da Kropotkin, Bakunin e molti altri idealisti. Questo in Aragona, in una parte della Catalogna, nel Levante (cinquecento villaggi in parte collettivizzati), nella Nuova Castiglia, in una parte dell’Estremadura e dell’Andalusia. Bisogna tener conto di tutti questi dati, e Simone Weil ha conosciuto, o ricordato, solo gli aspetti negativi di avvenimenti molto più vasti e complessi di ciò che ha visto. Ciò detto, non le rimprovero di aver posto il problema della violenza rivoluzionaria. È da molto tempo che me lo pongo io stesso… che mi si sono posto il problema del trionfo rivoluzionario armato del proletariato, e sono giunto a una conclusione negativa, non solo perché, tecnicamente, il proletariato non può più vincere lo Stato moderno (Bakunin lo aveva previsto un anno prima della sua morte), ma perché non posso moralmente accettare che il raggiungimento della giustizia possa essere ottenuto seguendo la via della barbarie”.
Ecco adesso la lettera di Louis Mercier Vega [16 dicembre 1954]:
“Mio caro Samson,
valeva proprio la pena di riprodurre la lettera di Simone Weil a Georges Bernanos. Suscita inquietudine, un rimedio sovrano alla sonnolenza dello spirito. E offre una testimonianza diretta sull’esperienza spagnola della defunta. Infine, fornisce un esempio interessante dei modi di pensare dell’autrice.
Ogni ammiratore di Simone Weil tende a tenere conto solo di uno dei momenti della sua evoluzione: quello di erede del pensiero greco, quello di sindacalista o quello di mistica. Un giorno bisognerà concatenare tutte queste epoche, ritrovare il movente comune o l’angoscia permanente che ne garantisce l’unità, per giungere alla comprensione, e quindi alla conoscenza, della pensatrice. Nel frattempo la lettera ci dà bene l’idea di quanto l’osservatrice della guerra civile spagnola che Gustave Thibon ci presenta nella prefazione di L’ombra e la grazia fosse una combattente volontaria, una miliziana. Tuttavia è fuor di dubbio che Thibon abbia semplicemente espresso l’idea che Simone Weil aveva di se stessa qualche anno dopo la sua esperienza. La lettera a Bernanos, che deve risalire all’autunno 1938 (se si prende come riferimento l’allusione fatta al guado dell’Ebro da parte delle truppe di Yagüe), segna già un’evoluzione di Simone Weil rispetto a ciò che pensava e sentiva due anni prima. Infatti, nel novembre del 1936, quando aveva ormai appreso la lezione sia sulla mentalità degli anarchici della FAI e della CNT, sia sul comportamento dei combattenti stranieri, sia sull’atmosfera della guerra spagnola, Simone Weil continuava a portare – a modo suo, molto ostentatamente – le insegne dei movimenti libertari, e ad avvolgersi attorno al collo i grandi foulard rossi e neri delle milizie anarchiche. Non solo, ma era presente agli incontri di solidarietà organizzati a Parigi in sostegno della rivoluzione iberica e proseguiva la sua attività di propagandista in favore della Repubblica sociale spagnola. Quando la guerra dei poveri contro i ricchi si trasformò in una guerra fra potenze totalitarie, in quel momento anche molti operai rivoluzionari rifiutarono di prendervi parte. Simone Weil fu fra questi e decise di non ritornare in Spagna. Tuttavia la sua lettera a Bernanos insiste in modo particolare sulle questioni morali che l’atmosfera spagnola aveva riportato alla luce e non già sull’aspetto sociale della guerra. Il terreno scelto è dunque quello di Bernanos.
La presentazione degli incidenti, dei fatti e degli avvenimenti corrisponde alla realtà che Simone Weil ha conosciuto durante il suo soggiorno in Spagna? Secondo i sopravvissuti del Gruppo Internazionale della colonna Durruti cui lei appartenne, non è così. La questione del giovane falangista fatto prigioniero dai miliziani internazionali le è stata raccontata da quegli stessi miliziani che si indignavano che il giovane fosse stato fucilato con l’approvazione, nell’indifferenza o su ordine (la richiesta di precisazioni non è mai stata ottenuta) dello stato maggiore della colonna. Le reazioni di Simone Weil furono identiche a quelle dei combattenti. La ricerca di un’affinità con Bernanos la spinse però a generalizzare. Qui non si tratta di negare o di minimizzare gli orrori di una guerra rivoluzionaria, né di dissimulare gli istinti di alcuni miliziani. Ciò che appare piuttosto cruciale, è definire un quadro completo dei sentimenti e delle passioni cui si diede libero corso, e non giudicare i rivoluzionari in blocco.
È vero che a Siétamo alcuni uomini trovati nelle cantine delle case incendiate e prese e riprese varie volte furono sottoposti a esecuzione sommaria da parte dei miliziani spagnoli. Ma anche in questo caso Simone Weil riferisce ciò che le è stato a sua volta riferito dai membri del Gruppo Internazionale. Ciò che invece non riferisce sono altre testimonianze su alcuni tratti caratteriali dei miliziani spagnoli o stranieri: la guarnigione che difendeva la cittadina, composta di soldati, guardie civili e falangisti, disponeva di un solo punto di rifornimento dell’acqua, una fontana pubblica esposta alle pallottole degli uomini del Gruppo Internazionale. Il comando franchista inviava quindi le donne a prendere l’acqua, scommettendo sullo spirito cavalleresco dei miliziani, che in effetti si rifiutavano di sparare sulle contadine. In questi combattimenti, nel corso dei quali il Gruppo Internazionale perse i tre quarti dei propri effettivi, si lanciarono appelli ai soldati perché si unissero alla Repubblica. E varie decine di reclute passarono nei ranghi confederali. A tutti fu offerto di scegliere fra il lavoro nelle retrovie e l’arruolamento nelle milizie; la maggioranza scelse i ranghi del Gruppo Internazionale. Fra le centurie vi fu certamente qualche esaltato che voleva mettere al palo i disertori per vendicare i propri morti. I delegati del Gruppo Internazionale minacciarono però a loro volta di fucilare quelli che parlavano di esecuzione, e tutto finì lì. Lo stesso fenomeno avvenne in altri luoghi, in particolare in occasione dei combattimenti di Farlete e sui contrafforti della sierra di Alcubierre.
Per quanto attiene l’opinione espressa da Simone Weil sull’assenza, presso i combattenti stranieri, di “una forza d’animo” capace di resistere alla “ebbrezza” dell’assassinio e sui “francesi pacifici […] che stavano immersi con visibile piacere in quell’atmosfera intrisa di sangue”, ci si può chiedere su quali esempi sufficientemente numerosi e significativi si possano stabilire tali generalizzazioni. Da parte nostra, abbiamo conosciuto combattenti venuti in Spagna per morirvi con estrema dignità, in comunione con il grande spirito rivoluzionario. A Gelsa, due compagni italiani che avevano tutte le possibilità di battere in ritirata rimasero sul posto, non per spirito di sacrificio, ma per arrivare fino in fondo con la sensazione di aver combattuto a testa alta. A Perdiguerra, un volontario bulgaro rifiutò di seguire i pochi superstiti del Gruppo Internazionale, che era appena stato fatto a pezzi, adducendo il pretesto di voler proteggere la ritirata, anche se in realtà voleva solo sfidare liberamente la morte.
Infine, che i contadini di Aragona non siano neppure stati “un oggetto di curiosità” per i miliziani ci pare una formulazione buttata lì. Quando avanzavamo sulle terre miserevoli che si trovano sulle rive dell’Ebro, erano i contadini della regione a farci da guida, erano i contadini ad accoglierci nei villaggi conquistati, erano i contadini a ripiegare con noi. Quando abbandonammo Pina, ci furono delle contadine che vennero a ringraziarci per averle protette senza aver mai fatto loro sentire la nostra presenza. Il consigliere militare che ci guidava allora, un francese morto anche lui lottando affinché la miseria contadina sparisse dal suolo iberico, quando capitava che qualche famiglia contadina ci accogliesse alla sua tavola, si premurava di lasciare al padre il compito di presiedere al pasto, seguendo un uso che ci pareva desueto (e che tra l’altro obbligava le donne a mangiare accovacciate vicino al focolare), ma che noi rispettavamo.
Questi pochi ricordi, mio caro Samson, da cui l’affetto per Simone Weil esce intatto, esprimono al contempo l’amicizia che provo per coloro che seppero vivere all’altezza del loro sogno, perché la giustizia non cambia mai di campo”.
Credo di non poter chiudere meglio questo confronto se non citando qui di seguito queste righe di Albert Camus [22 dicembre 1954]:
“Caro Samson,
È naturale che la lettera di Simone Weil faccia rumore. Pubblicarla non significa però che approviamo tutto ciò che diceva. Anch’io avrei qualcosa da dire… È bene però che la violenza rivoluzionaria, inevitabile, si separi talvolta dall’orribile buona coscienza in cui si è ormai installata”.
[traduzione dal francese di Marco Bonello]