[dal Bollettino 61]
Lettera a Georges Bernanos. “Témoins”, n. 7, autunno 1954
di Simone Weil
Bisogna […] essere sempre pronti a cambiare parte come la giustizia, questa fuggitiva dal campo dei vincitori.
Simone Weil, L’ombra e la grazia
È dietro suggerimento del nostro compagno Albert Camus che pubblichiamo questa lettera di Simone Weil a Bernanos, di cui già [Ignazio] Silone – che ne aveva letto una traduzione italiana – segnalava l’importanza. E benché questo testo sia già stato pubblicato qualche anno fa su un’altra rivista [“Bulletin de la Société des Amis de Bernanos”, n. 4, giugno 1950], il problema che Simone Weil pone è talmente cruciale che abbiamo ritenuto utile, per non dire indispensabile, sottoporlo alla riflessione di altri lettori, che anzi non saranno mai abbastanza.
Signore,
per quanto ridicolo possa essere scrivere a uno scrittore che è sempre, per la natura del suo mestiere, sommerso di lettere, non posso astenermi dal farlo dopo aver letto I grandi cimiteri sotto la luna. Non è certo la prima volta che un suo libro mi tocca: il Diario di un curato di campagna è per me il più bello, almeno fra quelli che ho letto, davvero un gran libro. Ma pur avendo amato questo e altri suoi libri, non c’era alcun motivo di importunarla scrivendoglielo. Tuttavia con quest’ultimo le cose sono cambiate: ho avuto un’esperienza simile alla sua, benché più breve, meno profonda, situata altrove e vissuta in apparenza – solo in apparenza – con tutt’altro spirito.
Non sono cattolica, anche se – e ciò che sto per dire sembrerà presuntuoso a ogni cattolico, soprattutto da parte di un non-cattolico, ma non so esprimermi diversamente – mai nulla di cattolico, nulla di cristiano, mi è stato totalmente estraneo. Anzi, talvolta mi sono detta che se solo si affiggesse alle porte delle chiese che l’ingresso è vietato a chiunque goda di un reddito superiore a una certa somma, non troppo elevata, mi sarei subito convertita. Sin dall’infanzia, le mie simpatie sono andate a quei raggruppamenti che si rivolgono agli strati più disprezzati della gerarchia sociale, fino a quando ho preso coscienza che questi raggruppamenti sono di natura tale da scoraggiare ogni simpatia. L’ultimo ad avermi ispirato una qualche fiducia era la CNT spagnola [Confederación Nacional del Trabajo]. Avevo visitato un po’ la Spagna – molto poco – prima della guerra civile, ma a sufficienza per provare quell’amore che è difficile non provare verso quel popolo; e avevo visto nel movimento anarchico l’espressione naturale delle sue grandezze e delle sue tare, delle sue aspirazioni più o meno legittime. La CNT, la FAI [Federación Anarquista Ibérica], erano un miscuglio sorprendente, dove chiunque era ammesso e dove, di conseguenza, si ritrovavano fianco a fianco l’immoralità, il cinismo, il fanatismo, la crudeltà, ma anche l’amore, lo spirito di fratellanza e, soprattutto, quella rivendicazione dell’onore così bella negli uomini umiliati; mi sembrava che coloro che erano animati da un ideale prevalessero su quelli che privilegiavano il gusto per la violenza e il disordine. Nel luglio 1936 ero a Parigi. Non amo la guerra; ma ciò che mi ha sempre fatto più orrore della guerra è la gente che se ne sta nelle retrovie. Quando ho capito, malgrado i miei sforzi, che non potevo fare a meno di partecipare moralmente a questa guerra, cioè di augurarmi ogni giorno, in ogni momento, la vittoria degli uni e la sconfitta degli altri, mi sono detta che Parigi per me rappresentava le retrovie e così ho preso un treno per Barcellona con l’intenzione di arruolarmi. Era l’inizio di agosto del 1936.
Un incidente mi ha costretta ad abbreviare il mio soggiorno in Spagna. Inizialmente sono stata qualche giorno a Barcellona; poi in piena campagna aragonese, lungo l’Ebro, a una quindicina di chilometri da Saragozza, nello stesso posto dove recentemente le truppe di Yagüe [Juan Yagüe Blanco, alto ufficiale falangista] hanno guadato l’Ebro; poi ancora nel palazzo di Sitges trasformato in ospedale; e infine di nuovo a Barcellona. In tutto più o meno due mesi. Ho lasciato la Spagna mio malgrado e con l’intenzione di tornarvi; in seguito, volontariamente, non l’ho fatto. Non sentivo più alcuna necessità interiore di partecipare a una guerra che non era più, come mi era sembrato all’inizio, una guerra di contadini affamati contro i proprietari terrieri e un clero complice dei proprietari, ma una guerra tra la Russia, la Germania e l’Italia. Ho riconosciuto quell’odore di guerra civile, di sangue e di terrore che emana dal suo libro: lo avevo respirato anch’io. Personalmente non ho visto o sentito – lo devo dire – nulla che eguagliasse l’ignominia di certe storie che lei racconta, quegli assassini di vecchi contadini, quei balilla che fanno correre degli anziani a manganellate. Eppure quello che ho saputo è stato sufficiente. C’è mancato poco che assistessi all’esecuzione di un prete; durante i minuti dell’attesa, mi chiedevo se avrei semplicemente guardato, o se mi sarei fatta fucilare io stessa, cercando d’intervenire; non so ancora ciò che avrei fatto, se un caso fortunato non avesse impedito l’esecuzione.
Quante storie si affollano sotto la mia penna… Ma sarebbe troppo lungo, e a che pro? Una sola basterà. Ero a Sitges quando sono tornati, sconfitti, i miliziani della spedizione di Maiorca. Erano stati decimati. Su quaranta ragazzi partiti da Sitges nove erano morti. Lo si seppe soltanto al ritorno degli altri trentuno. La notte successiva vennero uccisi per ritorsione nove fascisti o sedicenti tali, in quella cittadina dove, in luglio, non era accaduto nulla. Fra questi nove, un fornaio di una trentina d’anni, la cui colpa, mi dissero, era di essere stato membro della milizia dei Somaten [letteralmente Stiamoattenti; tradizionale guardia civica catalana ricostituita da Primo de Rivera nel 1923]; il vecchio padre, di cui era l’unico figlio e l’unico sostegno, impazzì.
Ma eccone un’altra: in Aragona un piccolo Gruppo Internazionale di ventidue miliziani di vari paesi catturò, dopo un breve scontro, un giovane ragazzo quindicenne che combatteva fra i falangisti. Appena preso, tutto tremante per aver visto cadere al proprio fianco i suoi compagni, disse di essere stato arruolato a forza. Lo perquisirono, e gli trovarono addosso una medaglia della Vergine e una tessera di falangista; lo spedirono allora da Durruti, capo della colonna, il quale, dopo avergli esposto per un’ora la bontà dell’ideale anarchico, gli fece scegliere tra morire o arruolarsi immediatamente fra i ranghi di quelli l’avevano fatto prigioniero, contro i suoi compagni di ieri. Durruti diede al ragazzo ventiquattr’ore per riflettere; al termine delle ventiquattr’ore, il ragazzo disse di no e venne fucilato. Eppure Durruti era per altri aspetti un uomo ammirevole. La morte di questo piccolo eroe non ha mai cessato di pesarmi sulla coscienza, benché l’abbia saputo soltanto dopo.
E un’altra storia ancora: in un paese che rossi e bianchi avevano preso, perso, ripreso, riperso non so quante volte, i miliziani rossi, che lo avevano ripreso definitivamente, trovarono nelle cantine un pugno di esseri stravolti, terrificati e affamati, fra i quali tre o quattro giovani. E fecero il seguente ragionamento: “Se questi giovani, invece di venire con noi l’ultima volta che ci siamo ritirati, sono rimasti ad aspettare i fascisti, vuoi dire che sono fascisti”. Quindi li fucilarono immediatamente, poi diedero da mangiare agli altri, e per questo si considerarono molto umani.
Questa storia arriva invece dalle retrovie: due anarchici mi raccontarono una volta come avessero preso, insieme ad altri compagni, due preti; uccisero l’uno sul posto, in presenza dell’altro, con una rivoltellata, poi dissero all’altro che se ne poteva andare. Quando fu a venti passi, lo abbatterono. Quello che mi raccontava la storia era molto sorpreso di non vedermi ridere.
A Barcellona si uccideva in media, sotto forma di spedizioni punitive, una cinquantina di uomini per notte. Proporzionalmente era molto meno che a Maiorca, poiché Barcellona è una città di quasi un milione di abitanti; del resto per tre giorni nelle strade si era svolta una battaglia particolarmente cruenta. Ma in questo genere di questioni forse le cifre non sono l’essenziale. Essenziale è l’atteggiamento di fronte all’assassinio. Non ho mai visto nessuno, né fra gli spagnoli né fra i francesi che erano andati lì a combattere o solo a farsi un giro (questi ultimi, il più delle volte, intellettuali scialbi e inoffensivi), esprimere repulsione, disgusto o semplice disapprovazione per il sangue inutilmente versato, foss’anche solo in forma privata. Nel suo libro lei parla della paura. Sì, la paura ha avuto un qualche ruolo in quei massacri; ma là dove mi trovavo io, non ho potuto vedere il ruolo che le attribuisce. Uomini apparentemente coraggiosi – ce n’è almeno uno di cui ho personalmente constatato il coraggio – durante un pranzo pieno di cameratismo raccontavano con un caldo sorriso fraterno quanti preti o “fascisti” – termine molto ampio – avessero ucciso. Ho avuto l’impressione che quando le autorità temporali e spirituali mettono una categoria di esseri umani fuori da quelle la cui vita ha un valore, non c’è niente di più naturale per l’uomo che uccidere. Quando si sa che è possibile uccidere senza rischio di castigo o di biasimo, si uccide, o quanto meno si circondano di sorrisi incoraggianti coloro che uccidono. Se per caso si prova inizialmente un po’ di disgusto, lo si mette a tacere, e presto lo si soffoca del tutto per paura di sembrare privi di virilità. C’è qui un addestramento, un’ebbrezza, cui è impossibile resistere senza una forza d’animo che devo credere eccezionale poiché non l’ho incontrata da nessuna parte. Ho incontrato invece dei francesi pacifici, che fino ad allora non disprezzavo, i quali non avevano alcuna intenzione di uccidere di persona, ma che stavano immersi con visibile piacere in quell’atmosfera intrisa di sangue. Per questi d’ora in avanti non potrò mai più avere alcuna stima.
Un clima simile cancella subito il fine stesso della lotta, poiché non si può formulare un fine se non riconducendolo al bene pubblico, al bene degli uomini – e qui gli uomini non hanno alcun valore. In un paese dove i poveri sono, nella stragrande maggioranza, contadini, il miglioramento della loro condizione deve essere l’obiettivo primario di ogni raggruppamento di estrema sinistra; e all’inizio questa guerra è stata forse innanzitutto una guerra pro o contro la redistribuzione delle terre. Ebbene, questi miseri e fieri contadini d’Aragona, rimasti fieri nonostante le umiliazioni, non furono per i miliziani neppure oggetto di curiosità. Ma seppure senza insolenze, senza ingiurie e senza brutalità – almeno, io non ho visto niente di simile, e so che furto e stupro, nelle colonne anarchiche, erano passibili della pena di morte – un abisso separava gli uomini armati dalla popolazione disarmata, un abisso del tutto analogo a quello che separava i ricchi dai poveri. Lo si avvertiva dall’atteggiamento sempre un po’ dimesso, sottomesso, timoroso degli uni, dalla spigliatezza, dalla disinvoltura, dalla condiscendenza degli altri.
Si parte come volontari, con idee di sacrificio, e si finisce in una guerra che assomiglia a una guerra di mercenari, con tante crudeltà in più e il sentimento di rispetto dovuto al nemico in meno.
Potrei prolungare indefinitamente tali riflessioni, ma bisogna limitarsi. Da quando sono stata in Spagna, da quando sento e leggo ogni sorta di considerazioni sulla Spagna, non posso citare nessuno – tranne lei – che per quanto ne sappia sia stato immerso nell’atmosfera della guerra spagnola e vi abbia resistito. Lei è monarchico, discepolo di Drumont, ma che importa? Mi è imparagonabilmente più vicino lei dei miei compagni delle milizie d’Aragona, quei compagni che, tuttavia, amavo. Ciò che lei dice del nazionalismo, della guerra, della politica estera francese dopo la guerra mi ha ugualmente commossa. Avevo dieci anni al tempo del trattato di Versailles. Fino ad allora ero stata patriota con tutta l’esaltazione dei bambini in periodo di guerra. La volontà di umiliare il nemico vinto, che permeò in maniera così repellente tutto e tutti in quel momento (e negli anni successivi), mi guarì una volta per tutte da quell’ingenuo patriottismo. Le umiliazioni inflitte dal mio paese mi sono più dolorose di quelle che può subire.
Mi dispiace di averla importunata con una lettera così lunga. Non mi resta altro che esprimerle la mia più viva ammirazione
M.lle Simone Weil
3, rue Auguste-Comte
Paris (VI)
P.S. Segnalarvi il mio indirizzo è stato solo un gesto meccanico. Innanzitutto sono convinta che abbiate di meglio da fare che rispondere alle lettere. E poi sto partendo per l’Italia dove trascorrerò uno o due mesi, e lì probabilmente le vostre lettere non mi arriverebbero perché sarebbero bloccate alla frontiera.