[dal Bollettino 61]
Simone Weil aveva ragione
di Pietro Adamo
Due sono gli elementi che mi rendono estremamente soddisfatto della decisione dei redattori del Bollettino di pubblicare la lettera a Bernanos di Weil. In primo luogo, si tratta di un documento pressoché occultato nella storiografia anarchica; non sono un esperto della guerra di Spagna ma posso dire che nei vari libri che ho letto sull’argomento è pressoché ignorato (nella enorme biografia di Durruti proposta da Abel Paz è citato una sola volta, in nota, e senza alcun commento); nella stessa antologia della Weil pubblicata anni fa da elèuthera [Incontri libertari, a cura di Maurizio Zani, prima edizione 2001, nuova edizione 2021] non solo la lettera è assente, ma non è neanche citata (in un libro, si pensi, dedicato appunto alle relazioni tra Weil e l’anarchismo). Non che la lettre non sia nota in italiano – io stesso ne possiedo tre traduzioni differenti (non è detto che siano le sole) – ma, appunto, non lo è nell’editoria anarchica.
E questo mi porta al secondo punto di soddisfazione: come rimarcano anche i compagni del Bollettino, in questi tempi in cui guerra e violenza politica sembrano esser tornati prepotentemente alla ribalta, nonostante gli sforzi di molti (alcuni? pochi?) per impedirlo, l’atto d’accusa di Weil – ché di questo si tratta, sono d’accordo con il collettivo redazionale – dà l’occasione per ripensare quell’intreccio di temi e problemi legati alla violenza che fa parte della storia dell’anarchismo, ovvero un intreccio peculiarmente nostro, che riguarda noi e quelli che, grosso modo, condividono il nostro ethos.
Sin qui le ragioni della soddisfazione. Passo adesso a quelle dell’insoddisfazione, che riguardano – non credo sia una sorpresa – la presa di posizione del collettivo redazionale. Primo, ne trovo il tono giustificazionista del tutto inappropriato. Qui non si tratta di difendere l’operato di compagni tutti morti da decenni, ma di comprendere cosa sia successo, come sia successo e soprattutto perché sia successo. Non è questione di condanna e difesa, ma questione di una comprensione che da queste categorie sappia prescindere e che da esse non si lasci ingabbiare. Punto secondo, entriamo nel merito della questione. Dal testo sembra che la polemica di Weil sia indirizzata essenzialmente contro la guerra; in parte è vero, nello stesso senso in cui ci diremmo, tutti noi, come è ben detto nel titolo, contro la guerra non solo come istituzione politico-sociale ma anche come costrutto dell’immaginario. Visto il problema in questa prospettiva, sembrerebbe allora che Weil voglia negare agli anarchici il diritto di combattere in difesa propria, delle proprie pratiche sociali, delle proprie tradizioni culturali (e delle istituzioni che andavano costruendo in Catalogna e Andalusia). Ma questo è un fraintendimento totale dell’impostazione della nostra filosofa: lei è lì, a dare il proprio contributo alla lotta al fascismo, e nella colonna Durruti, non nelle milizie repubblicane o social-comuniste. Quando sa dello scoppio della guerra, come spiega nella lettre, si precipita in Spagna a dare il suo contributo; certo, è piccolina, fragile, quasi cieca, ma è indubbio che sia lì per partecipare allo sforzo comune. Scrivere, come fanno i compagni del Bollettino, che “a volte sembra che per Weil l’anarchico buono sia l’anarchico morto”, insinuando che lei fosse contraria alla presa delle armi contro il franchismo, è frase di leggerezza inammissibile. È vero che il pensiero di Weil, in particolare a partire dal 1938, e proprio grazie al trauma della Spagna descritto nelle lettre, sembra orientarsi in senso ancora più impolitico verso un pacifismo integrale, ma questo oscura il problema del 1936, non lo chiarisce. Detto in breve: non c’è ragione alcuna per credere che Weil si stesse pronunciando contro il diritto degli anarchici, dei trotzkisti, dei comunisti, dei socialisti, dei repubblicani, di difendere la Spagna frontista dall’attacco fascista. Non è la guerra, forse neanche la guerra civile, al centro della sua polemica. Lo è invece la violenza indiscriminata, la violenza sociale, non quella militare, quella violenza che cresce e si sviluppa intorno alla guerra, ma lontana dallo scontro militare in sé: cette odeur de guerre civile, de sang et de terreur che si avverte nella situation de ceux que se trouvent a l’arriére.
Anche i commenti degli anni Cinquanta, in “Témoins”, mi sembra non colgano davvero il punto, per lo meno non sino in fondo. Non è affatto questione di pacifismo a oltranza o meno, ma della natura della violenza in sé e delle sue relazioni con l’anarchismo. Per chiarire la mia posizione personale: non mi sogno neanche da lontano di oppormi al diritto dei libertari di combattere, usando al caso la violenza, in difesa di sé stessi e del proprio diritto di costruirsi la vita come più loro aggrada; e quindi di combattere in Spagna contro il fascismo; né mi sogno di negare la legittimità della Resistenza anarchica in Italia; e neanche di negare le forme di resistenza anche violente nei vari casi di street fighting, espropri, sgomberi, e via dicendo. Non sarò io a scandalizzarmi o a protestare se qualche poliziotto si becca una botta in testa (ricordo a chi legge che nei vari scontri di piazza per motivi politico-sociali, non parlo di banditismo o mafia o criminalità, dal dopoguerra a oggi sono morti sì una dozzina di esponenti delle cosiddette forze dell’ordine, ma anche più di quattrocento manifestanti; e i morti più famosi, quelli di Reggio Emilia, di Catania, di Palermo del 1960 – mi permetto di ringraziare, a nome dei primi, Fausto Amodei – non erano facinorosi avventuristi come si scrisse nella stampa dell’establishment dell’epoca, ma operai comunisti ed ex membri della Resistenza).
Chiarito il punto, passiamo alla questione davvero nevralgica. In discussione non c’è quindi la violenza della guerra, con tutti i suoi problemi etici, le questioni di scelta e schieramento personale, il giudizio sulla coerenza tra mezzi e fini, eccetera. Giustamente, qui ognuno farà la sua scelta, ognuno, per citare Paul Goodman, “traccerà la linea” dove più riterrà giusto. Il problema per noi sta nella violenza insita nella guerra civile, di quella che fiorisce e si sviluppa non in guerra ma intorno alla guerra (Viaggio all’interno della guerra civile aveva titolato in “MicroMega” la sua premessa alla prima uscita italiana del testo di Weil Roberto Esposito), una dimensione per noi anarchici molto più problematica.
È lecito sparare a un prete o una suora che imbraccia il fucile in appoggio ai franchisti? Assolutamente sì. È lecito sparare a donne, uomini e bambini che fanno altrettanto? Assolutamente sì.
È lecito portare un prete in piazza perché è un prete e farlo toreare? È lecito violentare suore perché sono semplicemente suore? È lecito incendiare un monastero e sparare sui preti che tentano disperati di uscire dall’edificio in preda al fuoco? È lecito sparare su prigionieri di guerra scommettendo sulla propria mira? È lecito sparare per strada a borghesi con la cravatta perché sono borghesi con la cravatta? È lecito liberarsi di tutti gli abitanti – stavolta donne, vecchi e bambini – di un paesino (Ronda) che sino alla sera prima ha ospitato un reggimento franchista buttandoli tutti giù da una rupe? È lecito usare programmaticamente il paseo – prelevare di notte qualcuno da casa sua, portarlo in strada e ammazzarlo – contro persone che non sono armate contro la Repubblica o contro la Rivoluzione? È lecito dissotterrare i morti per esporli al pubblico ludibrio? Non dobbiamo rispondere a queste domande come militari, come guerrieri, come combattenti, come hommes armés, per dirla con Weil. Dobbiamo rispondere come anarchici. Quando la guerra civile è già scoppiata, “L’Adunata dei refrattari” pubblica uno dei saggi di più ampio e nobile respiro di Camillo Berneri (scritto prima dell’evento, ovviamente). Si intitola Umanesimo e anarchismo. Spiega, un Camillo quasi preveggente, che “quando si vede il militare, il prete, il borghese, ecc. non si vede l’uomo, che è infinitamente vario in ogni categoria sociale, tanto vario da costituire delle categorie che sono umane e non di classe o di ceto. […] L’anarchismo si è affermato nettamente e costantemente in ogni paese come corrente socialista e come movimento proletario. Ma l’umanesimo si è affermato nell’anarchismo come preoccupazione individualista di garantire lo sviluppo delle personalità e come comprensione, nel segno dell’emancipazione sociale, di tutte le classi, di tutti i ceti, ossia di tutta l’umanità”. Possiamo quindi supporre, per lo meno per amor di discussione, che la guerra ottenebri, per sua stessa natura, questo riconoscimento universale della dignità della vita e della personalità umana. E possiamo anche capire perché nella Spagna degli anni Trenta, dopo decenni di durissima repressione e dopo secoli di scontro sociale che non ha quasi analoghi nel resto dell’Europa occidentale, la guerra tra le classi avesse raggiunto un livello tale da esasperare del tutto gli animi, da portare molti a non più distinguere tra ceto e persona, tra ruolo sociale e individuo, esercitando una violenza che per molti versi ci appare atavica, rituale, sanguinosamente apocalittica. E che si inserisce – e questo mi sembra il punto teorico da comprendere appieno, che spiega i come e i perché degli eccidi di parte anarchica che caratterizzano in particolare l’estate del 1936, ma che si spingono almeno sino agli inizi del 1937 – in una concezione della rivoluzione come epocale frattura della storia, come creazione ex novo di nuovi cieli e nuove terre, come momento di redenzione e sacrificio universali (una concezione gnostica, avrebbero scritto i sociologi della violenza politica mezzo secolo fa), entro il quale la singola vita umana perde rilevanza e valore. Ma, appunto, essendo anarchici, noi non possiamo in alcun modo sottoscrivere questo disconoscimento di umanità. Usciti dallo scontro militare, lontano dagli spari e dalle baionette, noi, in quanto anarchici, torniamo a riconoscere a ognuno la dignità della vita, della personalità, dell’umanità. A mio parere il trauma di Weil consiste proprio nel prendere atto, inaspettatamente, che persino tra gli anarchici, e in particolare nella colonna Durruti, quando il combattimento è finito, quel sentimento universalistico e umanistico di cui parla Berneri sembra perdersi. Si potrebbe dire – come si dice nel brano in questione – che è la guerra, che sono le sue circostanze e le sue “crudeltà” a spingere verso questi eccessi: ma è appunto qui che noi, in quanto anarchici, abbiamo un limite – quello specificato da Berneri e implicito in Weil – che non possiamo superare. Gli altri – franchisti, poumisti, comunisti, repubblicani – lo fanno: noi invece dobbiamo restare saldi sulla nostra differenza, se no diventeremmo, appunto, loro. Non ho dubbi su cosa si sarebbe dovuto fare del giovane Andrés in armi, mentre “ti sta sparando”; non so invece dire cosa fare di lui quando è prigioniero, quando non è più armato; e mi sembra che i “suggerimenti” dei compagni del Bollettino siano sin troppo spiritosi (scappellotto o riabilitazione); sono invece certissimo di quel che non si doveva fare, ovvero fucilarlo, privandolo della sua irriducibile umanità singolare.
Si potrebbe pensare che tutto ciò che precede siano mie fisime. Al contrario, si tratta di temi e argomenti molto dibattuti tra i pensatori e nel movimento anarchico. Faccio solo due esempi (ma potrei farne centinaia, a partire dagli anni Settanta dell’Ottocento e dalla discussione della libera sperimentazione e dal decennio successivo con la discussione della propaganda del fatto), uno di carattere teorico, uno politico-sociale. Nel 1927-1928 Alexander Berkman ed Emma Goldman entrano in una discussione di grande profondità e rilevanza. Il primo sta scrivendo il suo ABC of Anarchism e confida alla seconda i suoi dubbi e le sue preoccupazioni. Così, nel giugno 1927 si incaglia una prima volta sul problema della relazione tra violenza e anarchismo, lamentando di non riuscire a scrivere nulla di coerente sul tema. È Emma, tra i due sicuramente la più acuta, la più intelligente, la più politica (nel senso ampio del termine), a indicargliene le ragioni, a partire dalla disillusione in Russia: “Tuttavia penso che questo non riguardi tanto la nostra fede nell’anarchismo come ideale ultimo di società, quanto la parte rivoluzionaria in esso” (il corsivo è mio). Nel giugno successivo Berkman si incaglia di nuovo, ma stavolta in modo più grave, cosa che gli fa pensare di rinunciare al libro stesso. Stavolta il masso è il capitolo intitolato “La difesa della rivoluzione”, ovvero come trattare i suoi avversari. E la questione è immediata: “La rivoluzione ha il diritto di difendersi? E allora cosa bisogna fare ai nemici attivi e ai controrivoluzionari? Tutto ciò conduce logicamente alle prigioni e ai campi”. Alexander approfondisce: “Se scrivo la seconda parte del mio libro logicamente, come dovrebbe essere scritto, allora non si accorderà con le idee anarchiche. […] Ho pensato con impegno a queste cose; ci sono momenti in cui penso che la rivoluzione non possa funzionare in base ai principi anarchici”. Goldman gli replica con un’argomentazione tesa, che parte dalla critica del comunismo anarchico alla Kropotkin e giunge alla necessità di riconsiderare la rivoluzione nel senso classico, di smettere cioè di considerarla una frattura epocale nella storia e una forma di esproprio di una classe sull’altra, ma di pensarla piuttosto come un processo e una “trasvalutazione di valori” (lessico nietzschiano), con l’idea che la ricchezza del mondo sia costruita “dallo sforzo combinato dell’umanità” al di là delle distinzioni di classe, con un flash dello stesso umanesimo berneriano.
Secondo esempio. La sequela di morti e sangue che si lasciano dietro gli anarchici detti incontrolados tra l’estate del 1936 e l’inverno del 1937 (con il culmine tra luglio e settembre del 1936), lungi dall’essere un mito o una polemica storiografica (come immagino piacerebbe a molti dei nostri negazionisti), è una realtà che viene affrontata sul momento, che spacca in due lo stesso movimento anarchico e che trova anche una specifica focalizzazione storico-politica, ovvero la decisione della CNT di passare per le armi José Gardenas e altri faisti per il loro ruolo in quella sequela. Già il 25 luglio le sezioni catalane di CNT e FAI lanciano l’allarme sulla necessità di conservare “una base morale” alla rivoluzione evitando “saccheggi e furti, con ingiustificate violazioni di domicilio e altre manifestazioni di arbitrio”, istituendo pattuglie volanti incaricate di sorvegliare la situazione. Qualche giorno dopo le stesse organizzazioni lamentano “arresti arbitrari e successive fucilazioni eseguite nella maggioranza dei casi senza nessun motivo”. Il 30 luglio la FAI nazionale se la prende con quelli che “commettono atti contrari allo spirito anarchico e alla giustizia del popolo […] risvegliando voci primitive sepolte nei recessi più oscuri della coscienza”, e minaccia al contempo la fucilazione (come appunto avverrà a Gardenas) per tutti coloro che agiscono “contro il diritto delle persone”. Federica Montseny ammette tristemente (e weilianamente) che durante le rivoluzioni “dalle profondità degli uomini onesti emerge un appetito brutale, una sete di sterminio, un desiderio di sangue”. Diego Abad de Santillán giudica “anche possibile che la nostra vittoria abbia prodotto in Catalogna la morte violenta di quattro o cinquemila persone”, conservatori e cattolici. Tra tutti i critici anarchici – e sono in molti tra 1936 e 1937 che condannano (esatto, che condannano) gli eccidi e gli eccessi – emerge il direttore di “Libertad”, il cenetista di antica data Joan Peiró (sodale di Ángel Pestaña ed ex direttore di “Solidaridad Obrera”), noto anche per aver criticato l’uso della violenza e del terrore contro i contadini catalani che avevano rifiutato le collettivizzazioni. Peiró si pronuncia senza requie contro quei “vampiri moderni”, quegli autori di “atti di terrorismo individuale”, quei “ladri e assassini che commettono crimini contro l’onore della Rivoluzione”. È importante comprendere due aspetti del problema: primo, che si tratta di un elemento storiografico consolidato, che non manca in nessuno dei libri che si scrivono oggi sull’argomento (tranne, è doloroso ammetterlo, in quelli scritti in genere dagli anarchici); secondo, che, fortunatamente per noi, va consolidandosi anche il secondo aspetto, ovvero che la resistenza agli eccessi e agli eccidi proviene in primo luogo dagli stessi ambienti libertari. Questo è quanto ha scritto Julián Casanova Ruiz (non un reazionario o un beghino a quanto mi consta) un paio di lustri fa:
In breve, la Catalogna testimoniò i vari percorsi seguiti dalla violenza rivoluzionaria nella seconda metà del 1936: paseos senza restrizioni, uccisioni di massa dirette da comitati e pattuglie di controllo che avevano fini propri, le checas, la più famigerata delle quali fu quella di San Elia a Barcellona; uomini della milizia che si occupavano di “salute pubblica”; e tribunali popolari con la loro licenza autoconferita di continuare a uccidere. Ne risultano 6.400 persone uccise in cinque mesi, l’80% di quelli uccisi nel corso dell’intera guerra [in Catalogna]. Si trattò di una retribuzione rivoluzionaria del più alto grado, la cui brutalità risulterebbe altrettanto dura anche se il numero dei morti fosse molto più alto o molto più basso. Ma ci sono prove persuasive che un ampio numero di persone, compreso il leader CNT Joan Peiró, politici esperti della Generalitat e semplici militanti […] tentarono di impedire il massacro, la qual cosa certo non si può dire per gli ufficiali e le autorità ribelli dall’altro lato.
Tutto questo ci porta a mio parere a una precisa conclusione: che la lettre di Simone Weil non è affatto un documento isolato e idiosincratico nel panorama dell’epoca; che le sue idee e i suoi sentimenti erano ampiamente condivisi negli ambienti anarchici, anche se non da tutti gli anarchici; che la “condanna” degli eccidi e degli eccessi era un punto fermo della cultura libertaria meno vicina ai concetti di classe e rivoluzione legati alle maggiori esperienze precedenti (in particolari quelle dell’anarco-comunismo più dottrinario); che il verbo dell’umanesimo libertario, ovvero della differenza anarchica, così come è colto da Berkman e Goldman, analizzato da Berneri e implicito nelle tesi di Weil, per alcuni era una parola d’ordine, un marchio identitario se preferite, irrinunciabile e imprescindibile, a onta di tutte le casistiche “concrete” della guerra e delle sue necessità.