di Andrea Lanza
In un’epoca in cui le mode costruttiviste e decostruttiviste, che aprono inesorabilmente a tendenze naturalizzanti, in un tempo in cui, cioè, riemerge l’illusione di poter essere ciò che “naturalmente” siamo, leggere René Lourau ci aiuta a pensare l’istituzione. Ci obbliga, cioè, a pensarci all’interno di processi che non solo ci forniscono regole, che possiamo seguire o trasgredire, ma in cui si plasmano anche la comprensione e i giudizi di queste regole. Come emanciparci all’interno di un sistema da cui dipendono i nostri stessi criteri per aderire o disobbedire al sistema? È questa, in fondo, la domanda al cuore dell’analisi istituzionale di René Lourau.
Nato in un paese della Guascogna nel 1933, Lourau è, negli anni Cinquanta, un insegnante delle scuole secondarie attivamente interessato alle nuove pedagogie. Sono gli incontri con Henri Lefebvre e Georges Lapassade a segnare il suo percorso intellettuale facendolo diventare, a partire dagli anni Sessanta, uno dei punti di riferimento dell’Analisi Istituzionale. Diviene così assistente di Lefebvre a Nanterre, epicentro delle contestazioni del ’68 francese, per poi spostarsi all’università Paris VIII (Vincennes-Saint-Denis), università allora sperimentale in cui si pratica l’analisi istituzionale.
Nel volume L’instituant contre l’institué (ovvero L’istituente contro l’istituito, 1969) si trovano già chiaramente esposti i principi teorico-pratici di Lourau. Innanzitutto l’obiettivo: la comprensione dei rapporti istituzionali a partire dall’osservazione dell’interiorizzazione non di norme supposte universali, ma di normatività specifiche e conflittuali mai del tutto corrispondenti a quelle ufficiali. Per raggiungere questo obbiettivo, sono necessarie delle analisi concrete in situazione, metodologicamente non dissimili dalle osservazioni partecipanti etnografiche o dalle ricerche attive sociologiche. L’aggettivo concreto non deve essere equivocato: Lourau si riferisce alla particolarità di ogni condizione, al momento e luogo specifico attraverso cui si può comprendere un processo istituzionale. Tale processo, però, si dimostra incomprensibile se non osservato anche nella sua fondamentale dimensione simbolica: cosa significa e che valori mobilita un certo termine, un certo oggetto, una certa azione?
Torniamo allora al titolo del volume, l’istituente contro l’istituito. Anche a partire dalle recentissime esperienze del 1968, il sociologo richiama l’attenzione sull’apparizione, talvolta anche violenta e radicalmente sovversiva, dell’istituente come opposto all’istituito. Con istituente, Lourau indica la contestazione, la capacità d’innovazione e, in generale, la pratica politica che apporta nuovi sensi e nuovi orizzonti alle pratiche sociali, nella vita quotidiana come nella società nel suo insieme. Per istituito intende, invece, l’ordine stabilito, ovvero i valori, le rappresentazioni e i modi di organizzazione considerati normali. L’interesse di Lourau si concentra allora sull’istituzione in quanto processo in cui istituito e istituente si articolano. Istituito e instituente sono infatti necessari l’uno all’altro: “la società instituita ha bisogno della società istituente per progredire, mentre la società istituente ha bisogno della società istituita per rivendicare e attuare il proprio progetto di trasformazione permanente” (p. 22).
La società, come le istituzioni in cui questa si organizza, è necessariamente attraversata dalla contestazione aperta o dalle norme-pratiche quotidiane in contraddizione con le regole “ufficiali”. Perfino le istituzioni più burocratizzate, come poteva essere quella dell’esercito della leva obbligatoria, funzionano attraverso fenomeni di compensazione, idealizzazione, riappropriazione dei valori, degli spazi e dei tempi. Allargando la prospettiva, occorre allora pensare la società come aggregato composto di appartenenze istituzionali segmentarie, talvolta in lotta le une con altre, perfino in uno stesso individuo. Se ci si ferma all’osservazione o alla denuncia dei valori ribaditi e ostentati come fondativi dalla sociale stessa, ci dice Lourau, si scambia l’ideologia dominante per la società, che questa ideologia in realtà nasconde. Osservare le istituzioni come processi della dinamica sociale permette invece di rapportarsi agli individui e ai gruppi come agenti stessi della trasformazione. Una trasformazione di istituzioni in cui questi individui e gruppi sono già presi e in cui resteranno presi, poiché le istituzioni, in senso generale, costituiscono la possibilità stessa del loro agire e del loro sovvertire. Per questo, tutti i movimenti rivoluzionari sono anche destinati a normalizzarsi e burocratizzarsi. Il punto, per Lourau, si sarà ormai capito, non è negare l’istituzionalizzazione, ma permettere una comprensione o, meglio, quell’autocomprensione dell’istituzione che estende le possibilità di effettiva autogestione. È in questo spirito che Lourau ha studiato, per esempio, l’esperienza della LIP, la più famosa autogestione operaia francese degli anni Settanta, o che ha seguito le sperimentazioni di trasformazione radicale delle cure psichiatriche italiane, guidate da Basaglia, con cui aveva stretto amicizia. Ed è in quest’ottica, in cui le istituzioni si auto-comprendono, anche grazie all’analisi istituzionale, che Lourau pensa la trasformazione in senso autogestionario di una società che impara a fare i conti con lo Stato che inconsciamente la abita (cfr. Lo Stato incosciente, elèuthera 1988).