Wassily Kandiskij, Primo Acquerello Astratto (1910), pubblico dominio.
Scrivere l’anarchismo attraverso la "storia dal basso"
di Kathy E. Ferguson
INTRODUZIONE
Nell’antologia di saggi da lei curata nel 2012, The Continuum Companion to Anarchism, Ruth Kinna si chiede: «Quali sono gli elementi costitutivi della ricerca anarchica?» (p. 4, corsivo nell’originale). Di cosa ha bisogno la ricerca anarchica per essere pienamente adeguata ai suoi materiali di studio? Esistono, si chiede Kinna (p. 8), «una teoria e una pratica storiografica specificamente anarchiche»?
Diversi studiosi hanno evidenziato come nella storiografia anarchica si ricorra spesso a pratiche inappropriate. David Goodway (1989, p. 6), seguito da molti altri, lamenta la presenza, soprattutto in passato, di una tendenza all’agiografia e di una certa propensione all’approccio «antiquario». In un saggio pubblicato vent’anni dopo il libro di Goodway, Stevphen Shukaitis (2009, p. 169) mette in guardia dal rischio di cadere «in quella rete autoreferenziale che rielabora senza sosta le gesta e le idee di alcuni maschi europei barbuti del XIX secolo». James Yeoman, nel suo affascinante studio su Print Culture and the Formation of the Anarchist Movement in Spain -1890-1915 (2020, p. 276), osserva che «una scrupolosa lettura della teoria anarchica» non è sufficiente per una buona analisi. Allo stesso modo, Kinna e Alex Prichard (2009, p. 271) mettono in guardia da «una celebrazione infinita di un insieme ristretto di principi de-storicizzati e de-contestualizzati».
Tutti questi studiosi e molti altri manifestano un senso di stanchezza nei confronti dell’impostazione che gli studi sui grandi pensatori e sulle grandi idee hanno avuto in passato, e accolgono con favore gli approcci innovativi alla storiografia anarchica. Ma dove cercare le metodologie migliori? In questo saggio ci soffermeremo sulla diversità di approcci praticati dagli studiosi il cui lavoro è riconducibile alla «storia dal basso», con l’obiettivo di trovare modelli più solidi per una storiografia anarchica. Detti anche storici «radicali» o storici «sociali», gli storici «dal basso» sono stati riconosciuti come compagni di viaggio da alcuni studiosi dell’anarchismo, ma a mia conoscenza manca tuttora un vero incrocio delle due traiettorie di ricerca. David Goodway (1989, p. 7), ad esempio, riconosce l’importanza della storia sociale, ma ritiene che «l’anarchismo sia stato ampiamente trascurato dai nuovi storici». Davide Turcato (2007, p. 410) mette in rilievo alcune affinità tra gli anarchici italiani da lui studiati e il «proletariato ribelle» studiato da Peter Linebaugh e Marcus Rediker nella loro storia dal basso. Entrambi i gruppi di radicali sono «idre dalle molte teste», in quanto si manifestano in una molteplicità di siti globali e non possono essere compresi adeguatamente in base a un quadro di analisi incentrato solo sullo Stato. Carl Levy (2010, p. 2) rileva che uno scambio metodologico con la storia dal basso può essere reciprocamente fecondo: «Impiegando metodologie e ponendo domande sull’anarchismo che sono state sollevate negli ambiti affini della storia sociale, socialista e del lavoro, l’anarchismo non viene più affrontato come uno studio astorico, come una patologia sociale avulsa dal contesto». Nella sua disamina delle idee e delle figure di attivisti, Tom Goyens (2017, p. 8) fa utilmente riferimento ai dettagli dello spazio urbano: «Lo spazio fisico e sociale è un protagonista della storia dell’anarchismo tanto quanto lo sono Most e Day». Kenyon Zimmer coniuga ulteriormente la storia anarchica con la storia dal basso nel suo interessante studio sull’anarchismo yiddish e italiano negli Stati Uniti, Immigrants against the State (2015, p. 2). Lo studioso definisce il suo libro come una «storia sociale della politica», concentrandosi sui «mondi da cui provenivano questi radicali, i mondi in cui vivevano e i mondi immaginari che cercavano di costruire»[1].
Dal canto suo Goodway (1989, p. 7), riconoscendo che la storia sociale si è ampiamente ispirata al marxismo, lascia aperta questa domanda: «Queste origini e preoccupazioni marxiste invalidano la storia sociale per gli anarchici?». A mio avviso, l’unica risposta possibile a questa domanda presuppone un’attenta analisi degli strumenti metodologici utilizzati dagli storici dal basso. Opere molto distanti dalle ordinarie storie dell’anarchismo possono nondimeno essere un'utile fonte di ispirazione. In questo senso, l’obiettivo del presente saggio è di approfondire alcuni esempi di storia dal basso per esaminarne gli strumenti specifici di scrittura utilizzati per dare un'immagine vivida dei mondi radicali del passato. La ricerca storica anarchica può trarre il massimo vantaggio dallo sviluppo degli strumenti metodologici più utili e convincenti che possiamo trovare, mutuandoli da ogni tradizione che si presta a questo fine. Lo scopo di questa mia esplorazione di alcuni testi chiave della storia dal basso non è di tentare una sintesi tra marxismo e anarchismo, ma di cercare in quei testi strategie che gli studiosi anarchici potrebbero ulteriormente sviluppare. Per quanto probabilmente non corriamo più il serio pericolo che la nostra storia sia interamente scritta dai nostri nemici, come hanno avvertito Carl Levy (1989, p. 25) e altri, sul cammino per sviluppare il miglior approccio possibile agli studi anarchici potremmo comunque avere bisogno dell’aiuto di altri.
Questa esplorazione della storia dal basso affronta dunque due serie interconnesse ma distinte di domande sulla scrittura. In primo luogo, in che modo dovremmo affrontare il soggetto delle nostre ricerche? Di certo, vogliamo ascoltare e contribuire ad articolare le voci di coloro che studiamo, riconoscendo il loro (e il nostro) attivo intervento nel mondo. Il che presuppone il reperimento e l’utilizzo di materiali pertinenti, tenendo conto dei punti di vista impliciti nelle fonti e dei significati mutevoli delle idee in tempi e luoghi diversi. Questo approccio di ricerca solleva questioni di responsabilità e di inclusione legate a una chiara consapevolezza su chi includiamo e sul debito che abbiamo nei confronti di altri.
In secondo luogo, come collocare i nostri soggetti in relazione agli altri e ai loro mondi? In questo caso è la scala di vita e di pensiero a richiedere attenzione. Gli scienziati e gli analisti dei sistemi spesso intendono la scala in termini di micro, meso e macroanalisi, considerati soprattutto come strati permeabili e orizzontali, che interagiscono dinamicamente tra loro. Lo strato inferiore è costituito da esseri e cose individuali situati nella materialità concreta delle loro storie specifiche; lo strato intermedio è costituito da gruppi di persone, luoghi, pensieri e cose, comunità emergenti che sono create da (e creano) interazioni e mediazioni; lo strato superiore è costituito dal «quadro generale», cioè i processi e le strutture storiche di lungo periodo che inquadrano individui e comunità, tecnologie ed eventi. Un approfondimento in termini di microanalisi mette in primo piano le biografie, mantenendo le relazioni di gruppo e il contesto sociale sullo sfondo. L’attenzione al livello intermedio della mesoanalisi si concentra sul piano del gruppo, mentre individui specifici e forze sociali più ampie svolgono un ruolo di supporto. Un’analisi del macrolivello mette in primo piano le forze storiche ad ampio raggio, mentre gruppi e individui sono considerati come esempi che illustrano un quadro più ampio. Questi livelli di analisi, che qui consideriamo distinti e separati allo scopo di esaminarli, sono in realtà intimamente connessi, anche se non completamente o puntualmente riconducibili l’uno all’altro.
SCRIVERE LA STORIA DAL BASSO – PARTE I
L'APPROCCIO AI SOGGETTI DI RICERCA
Gli storici che lavorano dal basso in genere esprimono nei confronti di chi ha poco potere non solo simpatia, ma sostegno. In ambito femminista si chiama «solidarietà critica» (N. Dave 2012, p. 86). Si tratta spesso di studiosi con un piede nell’accademia e l’altro nel mondo dell’attivismo. Gli esempi a cui faremo riferimento in questo articolo sono l'appassionato furore di C.L.R. James di fronte alle sofferenze degli schiavi e il suo imponente atto d’accusa contro le classi e i governanti coloniali in The Black Jacobins (I giacobini neri); le strane e meravigliose ribellioni religiose dei Dissenters esplorate da Christopher Hill in The World Turned Upside Down (Il mondo capovolto); le analisi straordinariamente dettagliate di E.P. Thompson in The Making of the English Working Class (La nascita della classe operaia inglese); l’attenta e avvincente ricostruzione della vita nei villaggi francesi del XVI secolo in The Return of Martin Guerre (Il ritorno di Martin Guerre) di Natalie Zemon Davis; l’immaginifica esplorazione del mondo intellettuale di un mugnaio del XVI secolo ne Il formaggio e i vermi di Carlo Ginzburg; i percorsi rivoluzionari di marinai e schiavi esplorati da Peter Linebaugh e Marcus Rediker in The Many Headed Hydra (L'idra dalle molte teste); la rivolta riuscita degli schiavi documentata e analizzata da Rediker in The Amistad Rebellion (La ribellione della Amistad); la sorprendente etnografia storica delle piante ne Il fungo alla fine del mondo di Anna Lowenhaupt Tsing; l’etnografia archivistica di Ann Stoler sugli interstizi e sulle stratificazioni della lotta tra le autorità coloniali in Along the Archival Grain (Fare il contropelo agli archivi); la reinterpretazione della Comune di Parigi proposta da Carolyn Eichner secondo l'ottica del femminismo rivoluzionario in Women in the Paris Commune (Le donne della Comune di Parigi); l'idea di un «fugitive text of the wayward» (parole fuggitive di ribelli) elaborata da Saidiya Hartman (2019, p. xiv) con l'obiettivo di riconoscere le giovani donne nere come attrici rivoluzionarie in Wayward Lives, Beautiful Experiments (Vite ribelli, esperimenti meravigliosi). Sono tutti esempi di una scrittura che cerca di opporsi alla cancellazione di chi ha poco potere. Come?
Seguendo Rediker (17 gennaio 2019), distingueremo sei obiettivi e pratiche cruciali di scrittura che permettono di creare una relazione convincente e utile con le persone di cui scrivono gli storici: voce, agentività, fonti, responsabilità, cura e accuratezza, e democratizzazione.
Voce. Sono almeno tre i livelli della voce che richiedono di essere coltivati: in primo luogo, il recupero e la presentazione dettagliata e accurata delle voci del passato, in modo che le persone che studiamo possano riconoscersi nella nostra narrazione; in secondo luogo, un'attenta analisi delle grammatiche e delle retoriche utilizzate dai nostri soggetti di ricerca, intesa a chiarirne le pratiche discorsive che li caratterizzano; in terzo luogo, la creazione della nostra voce di scrittori, con il giusto grado di umiltà e affidabilità. Scrivere la storia dal basso significa non solo scrivere sui propri soggetti, ma anche impegnarsi a farlo insieme a loro.
Un veicolo importante di questo impegno è la generosità con cui presentiamo le loro stesse parole nel nostro testo. In The Making of the English Working Class, Thompson offre un esempio di questo approccio attraverso le lunghe citazioni di una notevole quantità di voci. Ma l'ampiezza delle citazioni è solo il primo passo: Thompson non si limita a citare le sue fonti, ma le coinvolge in calorose conversazioni. Ad esempio, parlando del leader radicale William Cobbett, Thompson (1963, p. 758) elogia «il carattere democratico del suo tono», anzi si pone nei confronti dei suoi soggetti di ricerca nello stesso modo in cui Cobbett si poneva nei confronti del suo pubblico. Il pensiero di Cobbett non è «un sistema ma una relazione» (Thompson 1963, p. 758, corsivo nell’originale). Entrambi riconoscevano e apprezzavano l'incontro vivace dei leader politici con il loro pubblico, «la pietra focaia e l’acciarino» che «innescano il fuoco» (Cobbett, citato in Thompson 1963, p. 758). Possiamo applicare allo stesso Thompson le parole dello studioso su Cobbett (ibid.): «Sono pochi gli scrittori capaci di essere fino a questo punto la ‘voce’ del loro pubblico». In questo senso, pur senza trascurare i limiti dell’analisi di Cobbett, Thompson (p. 763) elogia ed emula la sua capacità di «entrare in contatto e coinvolgere».
Ne Il formaggio e i vermi, Carlo Ginzburg (1980, p. xiii) esplora questo tipo di coinvolgimento attraverso la passione per il suo «straordinario protagonista»: il mugnaio letterato e ribelle Menocchio. Ginzburg mobilita le emozioni dei lettori, mettendoci in relazione con il suo personaggio con simpatia e rispetto. Il ritratto che ci offre di Menocchio è particolarmente vivido. Il mugnaio è testardo, orgoglioso, ostinatamente indipendente: come osserva Rediker (26 febbraio 2019), la sua figura si colloca «nel quadro della struttura profonda della società contadina, ma in un movimento dinamico in quest'ambito». Ginzburg riporta lunghe citazioni dalle dichiarazioni rese da Menocchio all’Inquisizione, dalle lettere e dalle testimonianze di sacerdoti e di testimoni, dai tentativi infruttuosi del mugnaio di ottenere il perdono per aver denunciato i ricchi e messo in discussione i sacramenti, senza in realtà ritrattare le sue idee. Ginzburg fa un uso creativo delle risorse a sua disposizione, tra cui gli atti processuali, la corrispondenza e gli elementi di cultura popolare, non diversamente da come lo stesso Menocchio, quattrocento anni prima, aveva utilizzato le risorse politiche e religiose a sua disposizione. Lo studioso (1980, p. 16) sottolinea che i diritti rivendicati da Menocchio si ispiravano al suo Dio: «Un mugnaio può pretendere di esporre le verità della fede al papa, a un re, a un principe, perché ha dentro di sé quello spirito che Dio ha dato a tutti». Possiamo dire di Ginzburg quello che Ginzburg ha detto di Menocchio, cioè che «con rara chiarezza e lucidità […] articolò il linguaggio che era storicamente a sua disposizione» (p. xxviii). Ginzburg (p. xii) si esprime con modestia riguardo alle proprie capacità di riprodurre la voce di Menocchio: «Molte altre cose, certo, vorremmo sapere di Menocchio». Eppure, a dispetto dell'incompiutezza del racconto di Menocchio che lo studioso si cura di preservare, la voce del mugnaio ci arriva ugualmente con un'urgenza simile a quella che deve aver manifestato alle autorità dell’Inquisizione: «Ascoltatemi di gratia, Signore…» (p. 100).
L’attenzione alla grammatica e alla retorica dei testi dei nostri soggetti ci porta a considerare il genere della nostra scrittura sul piano del suo funzionamento. Ad esempio, in The Amistad Rebellion, Rediker analizza la creazione di una complessa identità collettiva da parte dei prigionieri africani in una lettera che scrissero al loro sostenitore (ed ex presidente degli Stati Uniti) John Quincy Adams. Pur essendo attribuita al giovane africano Kale, la lettera era in realtà una «composizione collettiva» (Rediker 2013, p. 181). Gli autori inventarono «un’insolita formazione sociale» espressa nel concetto di un «popolo Mendi», un «insieme complesso che non aveva un esatto corrispettivo nell’Africa occidentale, neppure nel Mendeland» (ibid., p. 180). Gli abolizionisti bianchi che sostenevano la causa dell’emancipazione e del rimpatrio degli africani avevano insistito sulla cristianizzazione e l’anglofilizzazione degli africani, che accolsero queste richieste imparando la nuova religione e la nuova lingua, e creando allo stesso tempo un nuovo modo di essere africani. Inventarono così «un’entità multietnica, che abbracciava i popoli Mende, Temne, Kono, Gbandi, Loma e Gola» (ibid.). Il «popolo Mendi» divenne così il veicolo di autoidentificazione collettiva attraverso cui gli africani potevano relazionarsi implicitamente, rivendicando la loro parità con il «popolo americano», luogo anch'esso inventato di aspirazioni sovrane. Attraverso le figure dell’amicizia personale, dei diritti individuali, della moralità cristiana e della lotta collettiva, questa auto-denominazione creativa permise agli africani «di avanzare tre richieste politiche fondamentali: dare forma alla loro difesa legale, proteggersi dalla violenza e insistere sui propri diritti all’auto-emancipazione e, infine, al rimpatrio» (ibid.). Un cambio di genere straordinariamente creativo fu insomma la mossa che permise agli africani di sfruttare il veicolo della lettera scritta per il loro progetto politico di ritorno a una cultura orale[2].
Un'attenta indagine sul funzionamento della voce, della grammatica e della retorica tra gli anarchici suggerisce che vi siano state anche altre invenzioni comparabili di nuove pratiche discorsive. Ad esempio, diverse donne anarchiche hanno contribuito a creare quel modesto genere di scrittura che l’anarchica italiana Leda Rafanelli ha chiamato Bozzetti sociali, brevi testi che sono un incrocio tra saggi e racconti, con «trame vaghe» ma personaggi e ambientazioni vivaci, volti all’esplorazione di un’idea o di un problema (Pakieser 2014, p. 10). Inoltre, gli anarchici ricorrevano spesso alle lettere per esprimere le loro voci politiche e mantenere i legami personali. Nell’analizzare i loro schizzi sociali e la loro corrispondenza, gli studiosi non sono tenuti a praticare questi due generi di scrittura, ma occorre comunque comprendere il funzionamento di questi stessi generi nella creazione di senso. Per essere ricettivi nei confronti delle voci dei nostri soggetti, dobbiamo stare attenti ai punti di forza e di debolezza dei generi cui fanno ricorso ed esserne consapevoli. Un tono colloquiale, come quello di Rediker nella sua ricostruzione della campagna epistolare dei prigionieri, può essere un invito alla fiducia rivolto ai lettori, in modo che possano entrare nel mondo della vita dei soggetti e ascoltarne le voci.
Agentività (agency). Ci sono almeno due livelli di approccio all’agentività nel quadro della storia anarchica: in primo luogo, si tratta di riconoscere i soggetti della ricerca come artefici e portatori di cambiamento e, in secondo luogo, di riflettere sul contributo politico del nostro intervento, a volte imprevedibile. Tener conto dell’agentività significa guardare all’auto-organizzazione dei nostri soggetti e coltivare la ricettività nei confronti dell'azione di liberazione sul campo. Per esempio, Thompson ci offre un racconto della folla consapevole in contrasto con l'immagine della folla senza volto vista dalla prospettiva delle élite. L’aristocrazia, la borghesia e i militari avevano bisogno di vedere i lavoratori che protestavano come plebaglia, e a tal proposito Thompson osserva ironicamente che le élite «rimasero sbigottite e alcune addirittura atterrite quando scoprirono che non era così» (Thompson 1963, p. 681, corsivo nell’originale). I luddisti, nel racconto di Thompson, vengono salvati dal loro abituale confinamento nel regno della «protesta cieca» e riqualificati come «accorti e spiritosi… capaci di gestire un’organizzazione complessa» (p. 543). Le loro proteste erano state confinate a una banale nostalgia «degli obblighi e dei doveri reciproci» perduti, che «venivano spezzati uno dopo l’altro» (p. 546). Ma la conclusione di Thompson è che i luddisti non erano affatto dei reazionari, e che il loro sforzo di «far rivivere gli antichi diritti», con un occhio rivolto alle provvidenziali corporazioni, potrebbe anche «stabilire nuovi precedenti», capaci di fungere da premessa per le lotte future (pp. 550, 552).
L’attenzione per l’agentività non è una prerogativa esclusiva dell’umano. Nella sua ricerca sui funghi matsutake, in cui combina etnografia creativa e storia naturale, Anna Tsing (2021, p. 224) considera i paesaggi come «strumenti radicali per relativizzare la hybris umana». E aggiunge: «I paesaggi non fanno da sfondo all’azione della storia: sono essi stessi attivi» (ibid.). Similmente, gli elementi non organici dei mondi vitali politici possono essere visti come parti attive nel campo agenziale del movimento. È il regno del technos, il mondo costruito e realizzato dall’umano, mediazione tra il mondo sociale e quello naturale e tra i vari livelli di organizzazione (Seaton 2005, p. 265). Gli esseri umani si uniscono ai non umani per dare forma a incontri reciproci. Nel movimento anarchico, ad esempio, gli stampatori spesso si relazionavano alle loro macchine da stampa come compagne nell'azione, come entità in relazione (Ferguson 2014). L’infinito flusso di testi scritti dal movimento non riguardava solo l’anarchismo: erano l’anarchismo, nel senso che le macchine da stampa agivano più come compagni che come oggetti inerti. L’energia e l’abilità necessarie per produrre e distribuire quei testi produceva una retroazione generando nuove energie e nuove abilità per mantenere in vita l’anarchismo.
Considerare l’agentività significa anche coltivare la riflessività nella scrittura e nella ricerca. L’uso generoso delle citazioni è un inizio, ma è solo un inizio, perché spesso i soggetti della ricerca subalterna lasciano pochi documenti scritti, e anche perché la nostra scrittura non si limita a riportare le idee di altri: rendiamo accessibili quelle idee in un certo modo specifico, facilitando alcuni collegamenti e limitandone altri. Ginzburg, osserva Rediker (26 febbraio 2019), stabilisce la sua autorità di scrittore, sia cronologica che tematica, accompagnando il lettore in «una lunga passeggiata attraverso un labirinto». La passeggiata stessa stabilisce il potere di Ginzburg di condurci attraverso quel labirinto. Saidiya Hartman (2019, pp. xiii-xiv) definisce il suo metodo «narrazione ravvicinata, uno stile che pone la voce del narratore e del personaggio in una relazione inscindibile, in modo che la visione, il linguaggio e i ritmi del protagonista diano forma e organizzazione al testo». Nella vicinanza narrativa coltivata da Ginzburg e Hartman c’è molto rispetto, e persino un folle amore. Tuttavia, le voci del passato sono spesso sfuggenti e, in ogni caso, non sono mai pienamente nostre.
Fonti. Fare ricerca significa individuare ciò che conta come una fonte rilevante e decidere cosa farne. In che modo la società produce documenti sulle persone emarginate? Per arrivare a ciò che i nostri soggetti di ricerca pensavano, sentivano, dicevano e facevano, è necessario cercare nuove fonti e leggere in modo creativo quelle già note. Gli storici dal basso spesso definiscono questa operazione come una lettura «in contropelo», anche se a volte può essere illuminante anche una lettura parallela.
Per fortuna degli storici dell’anarchismo, gli anarchici erano in gran parte scrittori prolifici: certo, ce ne saranno stati molti la cui vita è sfuggita ai nostri stessi archivi, ma gli anarchici hanno prodotto molte centinaia di riviste, opuscoli, libri e manifesti, oltre a migliaia e migliaia di lettere. La maggior parte delle pubblicazioni è ormai fuori catalogo, ma molte sono state conservate in un piccolo numero di biblioteche. Un rinnovato interesse per l’anarchismo alla fine del XX e nel XXI secolo ha portato alla ripubblicazione di molti classici. Allo stesso tempo, gli anarchici sono spesso finiti nel radar delle autorità, con un'ampia produzione di rapporti da parte di informatori, agenti sotto copertura, polizia, tribunali e media tradizionali. Naturalmente, queste fonti non sono neutrali: inquadrano sempre gli anarchici come il problema, mai la soluzione. Gli agenti governativi stanno agli anarchici come il Sant’Uffizio romano stava al mugnaio di Ginzburg: «Questo studio non sarebbe stato possibile se l'istituzione non avesse insistito sulla registrazione completa di tutti gli eventi presentati davanti al suo tribunale» (1980, p. xv, nota del traduttore). Esplorare fonti come l’FBI o il Sant’Uffizio per illuminare la soggettività e l’agentività delle persone emarginate significa pensare al di là delle relazioni di potere presupposte in quei documenti; significa immedesimarsi in ciò che era pensabile e fattibile per i nostri soggetti, diffidando delle etichette. Come sottolinea a più riprese Rediker, dobbiamo imparare ad ascoltare, a coltivare la curiosità, a leggere con il dono della meraviglia. Senza dare per scontato di sapere già cosa significhino le cose.
Per questo, consiglia Rediker (14 febbraio 2019), un'indagine approfondita è indispensabile: «Più sai, più puoi immaginare». A volte le tracce si esauriscono. Thompson (1963, p. 497) insiste sul fatto che, quando le prove dirette svaniscono o riflettono in gran parte gli interessi della classe dirigente, la logica della sofferenza e della resistenza della gente comune offre comunque indicazioni leggibili: una «speculazione costruttiva» è ammissibile. Le prove disponibili possono anche essere «disordinate», ma «la cultura articolata del popolo lavoratore» si può comunque trovare – nel caso degli operai di Thompson, nel XIX secolo, nel «mondo delle taverne», nelle «associazioni di mestiere», nelle pubblicazioni e nel «pubblico dei lettori» (pp. 585, 741, 612, 616, 674-676, 727). Nei «club di lettura e nelle società di dibattito» e tra i predicatori millenaristi «nei campi e nei parchi di Londra», Thompson (pp. 45, 48, 49) trova tracce di «come gli uomini sentivano e speravano, amavano e odiavano, e di come conservavano certi valori nella struttura stessa del loro linguaggio». Sulla stessa linea, Rediker (13 marzo 2019) incoraggia gli aspiranti storici che scrivono dal basso a «raccontare la storia più verosimile in base alle migliori prove disponibili». Allo stesso modo, Hartman (2019, pp. xiv, xv) «elabora, aumenta, traspone e amplia i documenti d’archivio in modo che possano dare un’immagine più ricca» dei sogni e delle ribellioni di chi «non ha ricevuto nulla». È un modo di scrivere rischioso, vulnerabile all'accusa di offrire un'immagine romanzata o nostalgica della storia, ma che offre la possibilità di una scrittura capace di rendere giustizia ai sogni e alle istanze di chi è in gran parte fuori dalla portata di una documentazione completa, e che tuttavia non accetta di essere coartato o sottomesso.
Rediker e Hartman sostengono con veemenza la necessità di prendere l’archivio «a contropelo»: come osserva Hartman (p. xiv), si tratta di «svincolare il divergere, il rifiuto, il mutuo appoggio e l’amore libero dalla loro identificazione come devianza, criminalità e patologia». Ann Stoler (2009, p. 50) adotta un approccio diverso: piuttosto che leggere «a contropelo», a suo avviso vale innanzitutto la pena di «fare il pelo» all'archivio, «leggendo lungo le sue pieghe». L’autrice offre due ragioni per mettere provvisoriamente tra parentesi quello che definisce il consueto approccio critico all'archivio: in primo luogo, perché una lettura a contropelo comporta un approccio (o il rischio di un approccio) agli archivi di tipo «estrattivo» piuttosto che «etnografico» (p. 47); in secondo luogo, perché la lettura dal basso trascura «le linee di faglia inesplorate, i bordi irregolari e le interruzioni non rilevate della superficie liscia e senza soluzione di continuità dei generi archivistici del colonialismo» (p. 52). Per quanto riguarda i testi esaminati in questo lavoro, il principale timore di Stoler è mal riposto: gli storici dal basso condividono infatti la devozione di Stoler all’«immersione» nelle loro fonti piuttosto che all’«estrazione» (pp. 47-48). Vivono gli archivi piuttosto che limitarsi a estrarne informazioni. La seconda riserva espressa da Stoler, invece, appare pressante per la storia dal basso perché solleva una domanda implicita: dal basso rispetto a cosa? Oltre che tra élite e non-élite, c'è un «alto» e un «basso» anche nell'ambito stesso dell'autorità. Con le sue affascinanti esplorazioni, Stoler mostra che nell’auto-rappresentazione delle autorità olandesi nell’Indonesia coloniale c'è una confusione diffusa riguardo allo status delle persone di razza mista, dei ragazzi di origine olandese che non sono tornati nei Paesi Bassi per la scuola, degli europei poveri o senza fissa dimora e di altri inclassificabili rispetto ai parametri coloniali dell'identità europea. I conflitti interni ai gruppi dominanti sulla migliore forma di governo fanno capolino attraverso quella che Stoler (p. 53) chiama «la struttura granulare e discontinua dell’archivio». L’archivio è un processo, oltre che un luogo in cui trovare le fonti. E c’è più di un modo per identificare e indagare le gerarchie di potere.
Cura e accuratezza. Scrivere la storia dal basso richiede attenzione per la mutevolezza delle definizioni dei termini chiave: non possiamo dare per scontato che le parole e le idee abbiano lo stesso significato oggi come in passato. Anche se spesso nutriamo un grande affetto per i nostri soggetti, è la nostra persistente e rispettosa curiosità a spingerci più a fondo nei loro mondo esistenziali. Ginzburg (1980, pp. 31, 26) accompagna il lettore alla scoperta della «singolarissima cosmogonia» di Menocchio, fatta di vermi e formaggio, di Dio e di respiro, descrivendo il suo rifiuto di assoggettarsi all’autorità sacerdotale come «un'energia morale e intellettuale che non è esagerato definire straordinaria». Ginzburg segue la documentazione delle eresie di Menocchio con grande cura per i dettagli, sottolineando le sue lunghe pause in risposta ad alcune domande, gli sfoghi appassionati di fronte ad altre, la cronaca dei libri che leggeva (compresa la Bibbia in volgare, e forse il Corano) e le sue conversazioni. Come molti lettori curiosi e motivati, Menocchio utilizzava i testi e li oltrepassava (pp. 48-49). Menocchio accedeva ai libri come spesso fanno i poveri: partecipava a una «rete di lettori che aggirano l'ostacolo delle proprie esigue risorse finanziarie passandosi i libri l'un l'altro» (pp. 28-29). Questa rete vivace comprendeva sacerdoti, uomini e donne del suo villaggio e persone entrate in contatto con una qualche scuola locale: «Stupisce», si meraviglia Ginzburg (p. 29), «che in un piccolo paese di collina si leggesse così tanto». Questo assembramento di lettori e letture ha ricadute non solo sulle persone ma anche sulle cose: «Il libro faceva parte dell'esperienza comune: era un oggetto d'uso, trattato senza troppi riguardi» (p. 29). Ginzburg cerca non solo ciò che Menocchio leggeva (p. 31), ma anche come leggeva: la sua «aggressiva originalità» interagiva con lo schermo inconscio delle tradizioni orali della campagna, che agivano come «una griglia che metteva in luce certi passi nascondendone altri, che esasperava il significato di una parola isolandola dal contesto, che agiva nella memoria di Menocchio deformando la stessa lettera del testo». Ginzburg rifiuta nozioni statiche come quella di «personalità» per comprendere Menocchio (p. 26), chiedendosi invece come sia nato: «Né la diffidenza dei parenti e degli amici, né i rimproveri del pievano, né le minacce degli inquisitori erano riuscite a incrinare la sicurezza di Menocchio. Ma che cosa lo rendeva così sicuro? In nome di che cosa parlava?». Naturalmente, la questione dell’autorità si riallaccia anche allo stesso Ginzburg, coinvolgendo lo scrittore insieme allo scritto.
Responsabilità. Scrivere in modo responsabile nei confronti dei propri soggetti di ricerca non significa necessariamente assumersi l’onere di portare avanti i loro punti di vista e i loro progetti, ma si riferisce a un senso più ampio di responsabilità intesa come capacità di dare risposte a loro, ai loro pensieri, sentimenti e azioni, alle loro lotte e ai loro mondi. Praticare la solidarietà critica vuol dire, come ricorda Thompson (1963, p. 12) in una pagina ben nota, tenere al riparo i nostri soggetti dalla «enorme condiscendenza della posterità» avendo a cuore le loro passioni e il loro destino. Si tratta in questo senso di «compiere come minimo lo sforzo immaginativo di comprendere» (p. 206). Quando la memoria degli ideali del passato finisce nelle mani sbagliate, li perdiamo di vista: le vecchie idee radicali diventano, per riprendere l'immagine lirica di Ginzburg (1980, p. 77), «parole che il tempo ha appiattito, come una moneta passata per troppe mani». Tuttavia, il passare del tempo può talvolta servire gli scopi di un recupero radicale. In The World Turned Upside Down, Christopher Hill (1972, p. 16) osserva: «Ogni generazione… salva una nuova area da ciò che le generazioni precedenti hanno arrogantemente e snobisticamente liquidato come ‘la frangia lunatica’». Chi è relegato nella frangia lunatica può trovare nuova vita, osserva Natalie Davis (1983, p. 3) in The Return of Martin Guerre, grazie a progetti di scrittura volti a «scoprire il mondo che avrebbe visto e le reazioni che avrebbe potuto avere».
La responsabilità, la capacità di dare risposte, non si fonda sulla deferenza ma sul rispetto: come osserva Davis a proposito di The Return of Martin Guerre, «ciò che vi offro qui è in parte una mia invenzione, ma tenuta a bada dalle voci del passato» (p. 3). Il fascino sfuggente dei ribelli del passato può essere occasione di intensi momenti di riflessione su di sé. Nel suo racconto della famosa storia di Pansette, il seducente contadino manipolatore, e di sua moglie, «Bertrande che si è fatta da sé», Davis guida il lettore alla scoperta delle sue fonti e lo invita a pensare insieme a lei e a trarre le proprie conclusioni (p. 118). Come osserva Rediker (21 febbraio 2019), Davis «promuove coraggiosamente il dubbio sulla conoscibilità [dei suoi soggetti]», pur continuando a cercare di conoscerli. Il contributo del suo libro consiste nel porre la questione dell'agentività inestricabile di autore e soggetto: «Penso di aver scoperto il vero volto del passato – o è stato Pansette a farlo, ancora una volta?» (Davis 1983, p. 125). Come Pansette e Davis, i nostri soggetti di ricerca operano una costruzione di sé potenzialmente dirompente. E lo stesso facciamo noi studiosi.
Democratizzazione. L’esperienza di ogni persona ha la sua importanza. I desideri di tutte le persone contano (Rediker, 17 gennaio 2019). Il rispetto per «l’intelligenza e la passione morale» di chi ha sofferto e lottato è fondamentale per la storia dal basso (Thompson 1963, p. 832). In quanto studiosi, riconosciamo, con Christopher Hill (1972, p. 13), «i tentativi di vari gruppi di gente comune di imporre le proprie soluzioni ai problemi del loro tempo». Molti anarchici, come gli ex schiavi di James, gli operai di Thompson, i ribelli religiosi di Hill, i contadini di Ginzburg e Davis e i marinai di Linebaugh e Rediker, erano dilettanti di talento. Come i tessitori di Thompson, molti erano autodidatti della classe operaia. Come i marinai di The Many-Headed Hydra, confrontavano le loro opinioni e trovavano il modo di scriverne. A dispetto della vivacità culturale della stampa anarchica, alcuni anarchici hanno tuttavia lasciato poche tracce scritte, o nessuna, e bisogna immaginarli creativamente a partire dai documenti dei loro oppressori, come fa Hartman (2019, p. xiv) quando «riesuma la ribellione in base al suo dossier».
Gli studiosi che scrivono dal basso entrano negli spazi in cui la gente comune pensa, agisce e crea vita intellettuale. Thompson (1963, p. 291) porta il lettore nelle comunità di tessitori dove «uomini autodidatti e dotati di notevoli capacità» avevano «frutta, verdura e fiori nei loro giardini», frequentavano poeti, musicisti e botanici nei loro villaggi, e tenevano animate conversazioni con i loro compagni. Il loro stile di vita era considerato arretrato da altri, e la sua catastrofica distruzione viene spesso narrata come un momento di temporaneo declino all’interno di una storia generale all’insegna del progresso. Ma i tessitori lottavano per le loro comunità e sognavano la loro rinascita. Thompson (1963, p. 802, corsivo nell’originale) si sofferma anche sulla povertà dei seguaci di Robert Owen, il cui «anelito comunitario» era allo stesso tempo la loro principale risorsa: «Il sogno che, in qualche modo, per miracolo, possano ancora una volta avere un ruolo nelle terre». Costruire i mondi dei nostri soggetti di ricerca attraverso generose atmosfere testuali permette di dare un'immagine realistica dei luoghi e delle persone (Rediker, 4 aprile 2019). Gli storici che scrivono dal basso ci insegnano a porci domande sulla cancellazione o sul declino delle comunità: è probabile che non siano semplicemente crollate, ma che siano state sconfitte attraverso una repressione spietata. È probabile però che non tutti e tutto siano stati cancellati: le tracce rimangono.
SCRIVERE LA STORIA DAL BASSO – PARTE II
LIVELLI DI ANALISI E INTERAZIONE
Per lo sviluppo degli studi anarchici, una storia ben raccontata può essere lo strumento più utile. Ci troviamo spesso a ricostruire la storia di lotte immense. Se ben raccontate, queste lotte continueranno ad avere un significato. Ma che significa raccontarle bene?
Possiamo pensare a questa sfida in termini di prossimità e portata, di testo e contesto, di figura e sfondo, di superficie e terreno, di ciò che mettiamo sotto i riflettori e ciò che lasciamo in secondo piano per creare una cornice avvincente. Raccontiamo grandi storie nel quadro di piccole storie, e viceversa. Micro, meso e macrolivello hanno bisogno l’uno dell’altro, anche se non si integrano in tutto e per tutto. Possiamo pensare ai livelli come ad assemblaggi aperti, fluidi, dinamici e intrecciati. I loro circuiti di interazioni, ci dicono i teorici dei sistemi, racchiudono «soglie, ritardi e discontinuità». L'azione e la retroazione rivelano sorprese e comportamenti non intuitivi dei sistemi (Liljenström e Svedin 2005, p. 1). Nell'ambito di ciascun livello e tra un livello e l'altro sussistono «campi di forza» che organizzano attivamente gli elementi disponibili (Stoler 2009, p. 22). Questi campi di forza sono caratterizzati da capacità di auto-organizzazione, proprietà emergenti, cicli di azione e retroazione, effetti ritardati, turbolenze, amplificazioni, attenuazioni e controlli (Liljenström e Svedin 2005, p. 3). Le ridondanze possono rendere le relazioni adattive meno vulnerabili alle perturbazioni, mentre le capacità di auto-organizzazione creano ordine dal disordine, ma rendono anche le relazioni imprevedibili (p. 4). La distinzione micro/meso/macro si riferisce a interdipendenze stratificate: c'è sempre una molteplicità di micro «sotto» di noi (per esempio, organi, batteri, molecole), di meso «tra» di noi e di macro «sopra» di noi. Le decisioni sugli elementi microscopici, mesoscopici e macroscopici dipendono dal contesto. Un livello apparentemente superiore o inferiore, se visto da un'altra prospettiva, può rivelarsi un livello intermedio.
La mia concezione di questi livelli si ispira alla ridefinizione ecologica delle teorie dei sistemi per metterne in rilievo gli intrecci dinamici. I partecipanti sono, come dice Anna Tsing (2021, p. 52) a proposito delle specie, «effetti che emergono da incontri». I livelli sono correlati ma «non possono essere ridotti alle proprietà dei componenti che appartengono al livello sottostante» (Liljenström e Svedin 2005, p. 4). Non sono quindi ordinatamente scalabili: non esiste un’unica logica induttiva o deduttiva per passare dall’alto al basso o viceversa. Come spiega Tsing (2021, p. 71): «La scalabilità […] è la capacità di un progetto di cambiare facilmente scala senza per questo apportare alcun cambiamento alla sua struttura. Un'impresa scalabile, per esempio, non cambia la sua organizzazione nell'espandersi. Ciò è possibile soltanto se le relazioni di tale impresa non sono trasformative, ossia l'impresa non cambia con l'inserimento di nuove relazioni. Allo stesso modo, un progetto di ricerca scalabile ammette soltanto dati che si inseriscano entro il quadro di questa ricerca. La scalabilità richiede che gli elementi del progetto siano indifferenti all'indeterminazione dell'incontro; è così che permettono un'espansione facile. In tal modo, la scalabilità bandisce ogni diversità significativa, vale a dire ogni diversità che potrebbe cambiare le cose».
Senza il presupposto della scalabilità, non c'è uno schema predefinito di «scrittura macroscopica» o «scrittura microscopica». Senza un unico strumento che collochi tutti al loro posto, non c’è modo di conoscere gli abitanti di ogni livello. Tuttavia, è difficile vedere tutti i livelli contemporaneamente, ed è per questo che tendiamo a semplificare i livelli di contorno per concentrarci su quello che accade in un singolo livello. Ciascun livello può essere per gli altri una cornice, uno stimolo indefinito o un’interruzione. Tsing (2015, pp. 158, 160) concorda con Rediker sul fatto che la chiave del lavoro di comprensione consiste nell’ascolto attivo e nel prendere nota. Il mugnaio seicentesco di Ginzburg (1980, p. 154 ss n. 55 della traduzione inglese), con le sue opinioni e con la sua voglia di confrontarsi con le autorità sui suoi desideri eretici di un nuovo mondo (micro), si colloca nel contesto di un villaggio sorprendentemente alfabetizzato e di un clero minaccioso (meso), inquadrato nel più ampio conflitto tra una cultura orale rurale e una cultura scritta dominante (macro), bloccato in «una lotta impari, in cui i dadi sono truccati». Ginzburg (pp. 55, 49) racconta la storia tracciando i legami multidirezionali tra le relazioni micro/meso/macro: in primo luogo, il mugnaio ostinato; in secondo luogo, il suo mulino, il suo villaggio e le reti sociali circostanti, le «relazioni e trasmissioni culturali» che collegano altri lettori, scrittori e interpreti; in terzo luogo, la Controriforma, il cambiamento dell’economia contadina, l’invenzione della stampa e il fatto che «l'incontro tra pagina scritta e cultura orale formavano nella testa di Menocchio una miscela esplosiva». Le condizioni di possibilità che determinano chi può parlare e cosa può essere detto emergono negli interstizi di questi strati.
Alcuni anni fa, Constance Bantman e David Berry (2010, pp. 1-2) hanno identificato tre «nuovi sviluppi metodologici che aprono nuove prospettive sullo studio dell’anarchismo», sviluppi che fanno luce sui tre livelli di analisi. Bantman e Berry (p. 4) rilevano tre tendenze della «nuova storia»:
- Una storia transnazionale e globale che non dà per scontati i contesti nazionali;
- Le biografie e le reti personali dei personaggi storici;
- Un nuovo comparativismo.
Queste innovazioni della «nuova storia» si intersecano con i livelli di analisi che stiamo enucleando nella storia dal basso.
In primo luogo, l’approccio transnazionale è una potente strategia metodologica che permette di esercitare una pressione continua sul livello della macroanalisi, per evitare che si concentri automaticamente sullo Stato. Le macroanalisi possono fare riferimento, ad esempio, ai modelli di immigrazione, alle comunità linguistiche, alle aree urbane, alle strutture di classe, allo sviluppo economico o alle geografie regionali che offrono un «quadro generale» senza naturalizzare lo Stato. Ad esempio, il vivace ritratto delle donne anarchiche nelle comunità diasporiche italiane in Italia, Stati Uniti e Sud America in Living the Revolution (2011) di Jennifer Guglielmo è una potente analisi transnazionale dell’anarchismo come stile di vita in movimento.
In secondo luogo, collocare le biografie nell'ambito delle loro reti personali e politiche di riferimento è una strategia che esercita una pressione sul livello della microanalisi per evitare che si ripieghi sulla teoria del «grande uomo» della storia. Ad esempio, l'approccio innovativo di Ruth Kinna, che conclude The Government of No One (2019) con decine di ritratti biografici, permette ai lettori di collocare le storie di vita dei singoli all’interno di un più ampio contesto di movimento, come anche la straordinaria raccolta di interviste di Paul Avrich in Anarchist Voices: An Oral History of Anarchism in America (1996). L’attenzione alle reti, di cui Living the Revolution di Guglielmo e Immigrants against the State di Zimmer sono un esempio, combina livelli di micro e mesoanalisi, mettendo così sempre in primo piano la relazione tra gli individui e i movimenti più ampi in cui operano. Lo spazio per la creatività nel livello intermedio, osserva Carl Levy (2010, p. 16), consente agli studiosi di sviluppare «mappe mentali più ampie» per tracciare il loro terreno di studio: «I tre campi di studio più rilevanti sono le culture politiche create da gruppi professionali (minatori, braccianti, marinai, boscaioli, sarti, per esempio), da periferie o quartieri di città (Barcellona, Torino, Buenos Aires, Tampa, Paterson, tra gli altri) e da comunità diasporiche (italiani, ebrei e altri)».
Senza dubbio si possono individuare anche altre reti di mesolivello, mettendole in primo piano a mano a mano che – grazie a una nuova mappatura – vanno emergendo altri aspetti dei movimenti anarchici.
In terzo luogo, un rinnovato approccio comparativo può offrire un contributo a tutti e tre i livelli di analisi, permettendo di reperire somiglianze e differenze tra luoghi e tempi, ancorandoli ai loro luoghi specifici e consentendo raffronti incrociati. Ad esempio, molti dei saggi contenuti nella raccolta del 2010 di Berry e Bantman, New Perspectives on Anarchism, Labour and Syndicalism, mettono a confronto le relazioni tra anarchismo e sindacalismo in diversi paesi o regioni. In Immigrants against the State, Zimmer confronta le comunità anarchiche yiddish e italiane negli Stati Uniti facendo emergere somiglianze e differenze. In sintesi, prestare attenzione ai livelli di analisi implicitamente messi in primo piano in uno studio, e impostarli in termini di relazioni reciproche piuttosto che come strati isolati, può permettere di ampliare gli angoli di visuale disponibili per comprendere quel che hanno fatto gli anarchici e il modo in cui lo hanno fatto.
La riflessione sulla scrittura dei diversi livelli di analisi è una parte essenziale della scrittura dell’anarchismo come movimento, non solo sul piano dei singoli individui eroici o delle grandi idee. Carolyn Eichner (2004, p. 2) affronta questo problema nel suo studio sulle donne comunarde selezionando «tre diverse leader rivoluzionarie, Andre Léo, Elisabeth Dmitrieff e Paule Mink, ognuna delle quali esemplifica un particolare filone del socialismo femminista comunardo». Sebbene vengano citati anche i contributi di altre donne, queste tre emergono come figure «esemplari e incarnazione di politiche diverse», offrendo al contempo storie da interrogare criticamente (pp. 8-9). Eichner evita nel suo racconto la più nota Louise Michel perché in molta letteratura critica Michel è considerata rappresentativa di tutte le donne rivoluzionarie, riducendole così «a un tipo» (p. 6). Ma la scelta di tre donne come esempio illustrativo di tutte le altre non incorre nello stesso rischio? E quale sarebbe un numero adeguato? Il poderoso tomo di Thompson si spinge all’estremo opposto presentando una serie monumentale di attori, e spingendo il lettore non specialista a sfogliare disperatamente le pagine per ricordare le identità di persone, luoghi ed eventi. Se si presentano più di una manciata di individui, come può il lettore tenerli a mente?
Come abbiamo già rilevato, Thompson (1963, pp. 199-202) introduce i suoi personaggi con lunghe citazioni da fonti originali, presentando le loro parole con la loro stessa voce (o con la voce più vicina possibile). Ad esempio, lo studioso riproduce dalla rivista Black Dwarf le ampie e convincenti osservazioni pubbliche di «A Journeyman Cotton Spinner» (Manchester 1818), per introdurre l’oratore attraverso la sua appassionata richiesta di indipendenza e giustizia. Tuttavia, la mole degli oratori, ognuno determinato come l’altro a comunicare la propria indignazione, le proprie suppliche e la propria disperazione, li rende una massa confusa. Per rispetto, Thompson (p. 592) si astiene in larga misura dal collocare i suoi soggetti nella grande narrazione di qualcun altro: «Per chi la vive, la storia non è né ‘precoce’ né ‘tardiva’. I ‘precursori’ sono anche gli eredi di un altro passato. Gli uomini devono essere giudicati nel loro contesto». Eppure, quale contesto è possibile ricostruire come «loro proprio»?
È una sfida ardua prestare un’attenzione pressoché uguale a ciascuno di questi livelli di analisi. Forse non è necessario farlo, ma ogni omissione e ogni selezione ha le sue conseguenze. In The Black Jacobins, James racconta una storia avvincente di sfruttamento e ribellione, coraggio e tradimento, invasioni ripetute e alleanze mutevoli nella rivoluzione haitiana del 1791-1803. James (1968, p. 50) esplora modelli solitamente trascurati sul piano del macrolivello. Lo studioso stabilisce un collegamento tra le lotte pro e contro la libertà in Francia con fenomeni simili nelle colonie: «La tratta degli schiavi e la schiavitù furono dunque la base economica della Rivoluzione francese». L’autore mette in discussione i luoghi comuni. Ad esempio, ricolloca il movimento abolizionista nel quadro più ampio della rivalità tra francesi e inglesi, e degli sforzi ostinati delle classi proprietarie di schiavi per ristabilire la schiavitù dopo ogni sconfitta. Insiste anche nel collocare la resistenza violenta degli schiavi haitiani nel contesto macroscopico della violenza ben più grande dei loro oppressori: «Quando mai, però, i proprietari si sono curati della ragione se non sotto l’incubo della violenza?», si chiede amaramente (p. 69). «I ricchi si possono considerare sconfitti soltanto quando cominciano a dover mettere in salvo la pelle» (p. 76).
La storia di James, ispirata ai movimenti anticoloniali e alle mobilitazioni della classe operaia degli anni Trenta, presenta alcuni leader noti e masse senza nome, la «marea rivoluzionaria» (p. 114). Il libro è efficace al livello della macronarrazione delle vaste forze impersonali che colludono e si scontrano, e al microlivello della lotta tra individui chiave: di fatto, i due livelli sono l’uno lo specchio dell’altro. Il livello intermedio manca del tutto[3]. La microstoria degli eroi rivoluzionari, nati per comandare, è l’inversione retorica del macrolivello della grande storia di forze sociali inesorabili. James dichiara fin dall’inizio che «la guida individuale che ebbe il merito di questo avvenimento eccezionale [la rivoluzione haitiana] fu opera quasi esclusiva di un solo uomo: Toussaint L’Ouverture» (p. 8). E continua: «La storia della rivoluzione di Santo Domingo sarà soprattutto la descrizione delle sue imprese e della sua personalità politica» (p. 9). La teoria della storia a tappe cui si ispira James sulla scorta di Trockij mette in primo piano «le forze economiche di quell’epoca, la loro opera di modellamento della società e della politica degli uomini nella massa e degli individui» (ibid.). Alcuni altri individui sono riconosciuti come «uomini nati per comandare», ma nessuno è presentato con dettagli altrettanto vividi; nel frattempo, i loro compagni rivoluzionari (la maggior parte degli uomini e tutte le donne) sono ridotti a «masse coraggiose ma ignoranti» (pp. 94, 104).
Attraverso una descrizione vivida e dettagliata dei personaggi, James segue lo sviluppo della leadership rivoluzionaria ad Haiti. Rediker rileva che James fa probabilmente appello alla sua formazione coloniale britannica classica per restituire lil tipo di immagine di Touissant che ne darebbe un romanziere, cioè quella di un eroe avvincente che, nelle parole di James, commise «un unico terribile errore» smarrendo i suoi legami con i lavoratori neri (p. 209). Ironia della sorte, lo stesso ha fatto James: la sua narrazione smarrisce infatti la connessione con il livello intermedio dell’analisi, i tessuti connettivi dei movimenti politici che collegano alcuni individui e ne separano altri. Gli eroi e i cattivi di James sono «personificazioni di forze sociali» che gli permettono di mostrare il potere sociale che opera attraverso le azioni degli individui (Rediker, 24 gennaio 2019). Se non sono altro che questo, ne risultano appiattiti e le relazioni orizzontali tra di loro diventano poco interessanti.
La scalabilità dei livelli più ampi e più ristretti della narrazione storica di James, il loro stretto legame reciproco, può spiegare la relativa debolezza del mesolivello di pensiero. A parte Toussaint, James racconta gli attori più che presentarli, ed è raro che questi parlino da sé. Anche quando introduce opportunità per rintracciare la rete di relazioni ed eventi al mesolivello, è poi raro che le persegua. Per esempio, James tratteggia così la struttura coloniale di razza/classe: una burocrazia monarchica che governa o tenta di governare i grandi bianchi (proprietari di piantagioni), i piccoli bianchi (commercianti, artigiani), i mulatti, i neri liberi e gli schiavi neri. Tuttavia, le sue categorie di classe/razza guardano tipicamente «in alto», al grande disegno della Storia, piuttosto che «in basso», agli assemblaggi di persone e cose. «Era stata la contesa tra la borghesia e la monarchia a portare sulla scena politica le masse di Parigi», sostiene James (p. 72). «A Santo Domingo fu la contesa tra bianchi e mulatti a risvegliare gli schiavi dormienti» (ibid.). Nella sua disamina della sanguinosa rivolta degli schiavi del 1791, si intravedono le reti che collegavano tra loro i ribelli. James commenta: «L’atmosfera più favorevole alla cospirazione era quella del voodoo. A dispetto d’ogni proibizione, gli schiavi percorrevano a piedi chilometri e chilometri nottetempo per riunirsi a cantare, danzare, praticare i propri riti, conversare; e ora, dopo la rivoluzione [francese], per ascoltare le notizie politiche e predisporre piani» (p. 82). Il pieno sviluppo di una mesoanalisi porterebbe a indagare i viaggi, i canti e le danze, i riti e i discorsi, l’ascolto e la realizzazione dei piani. Se era un mezzo di «cospirazione», immagino che il voodoo dovesse essere qualcosa di più che uno strumento di «masse eroiche ma ignoranti» (p. 97)4[4]. Per ammissione dello stesso James (p. 213), c’erano molti Toussaint: «Uomini neri che erano stati schiavi e che adesso erano deputati al parlamento francese; uomini neri che erano stati schiavi e che ora occupavano le più alte cariche della colonia». Immagino che lo stesso fosse probabilmente vero anche per gli ex schiavi che occupavano le posizioni più basse e quelle intermedie: dovevano conoscersi tra loro. Devono essersi incrociate le loro famiglie, le loro competenze, il loro tempo libero, le loro abitudini di lettura, i loro luoghi di istruzione, di lavoro, di domicilio, di culto. E alcuni di loro dovevano essere donne. Forse, questo dare voce ai leader che incarnano le forze della Storia è una conseguenza dell’approccio stadialista di James, mentre i giudizi paternalistici sui lavoratori neri «arretrati» e «selvaggi» riproducono inavvertitamente la logica del colonialismo.
A differenza di The Black Jacobins, The Making of the English Working Class è efficace sul mesolivello. Come i radicali che studia, Thompson (1963, p. 22) «confida nei processi di auto-attivazione e auto-organizzazione della gente comune» ed esplora instancabilmente le creazioni autonome collettive dei lavoratori: «Nel 1832 esistevano istituzioni operaie ben radicate e consapevoli (sindacati, società di mutuo soccorso, movimenti educativi e religiosi, organizzazioni politiche, periodici), tradizioni intellettuali operaie, modelli di comunità operaie e una struttura operaia del sentire» (p. 194).
Gli operai non erano materia bruta per il capitalismo: avevano ereditato i diritti degli inglesi liberi, dei beni comuni, del villaggio e delle tradizioni artigiane. Le riunioni delle società di corrispondenza, i gruppi di lettura, ecc. si manifestarono come «punti di snodo» e «cardini su cui ruota la storia» (p. 21). Thompson (p. 20) racconta con partecipazione le caratteristiche della London Corresponding Society [federazione di circoli di lettura], attingendo informazioni da «coffee-house, taverne e chiese dissidenti [...] dove l’artigiano autodidatta poteva confrontarsi con il tipografo, il negoziante, l’incisore o il giovane avvocato», così come dalle più antiche e omogenee comunità operaie come quelle dei lavoratori portuali o dei setaioli. La London Corresponding Society «riuniva le diverse agitazioni in un movimento comune» in cui i lavoratori mettevano in comune le loro modeste risorse e si organizzavano faticosamente in spazi che diventavano centri di azione politica, creatività intellettuale e incontro sociale (p. 21).
Anche The Many-Headed Hydra di Linebaugh e Rediker è efficace al mesolivello: l’economia politica e lo stile di vita sui velieri erano il portato di una rete di insediamenti costieri e porti marittimi che combinavano «le esperienze della nave d’alto mare (hydrarchy), del reggimento militare, della piantagione, della banda di predoni, della conventicola religiosa e della tribù etnica o del clan» (Linebaugh e Rediker 2000, p. 179). La tradizione del radicalismo marittimo tracciata da Linebaugh e Rediker attraverso due secoli e mezzo di storia atlantica emerge da ambienti, tecnologie e relazioni concrete che funzionano come punti di collegamento, richiamandosi l’un l’altro, e così fondano, amplificano e legittimano le lotte per il cambiamento. Il passato radicale diventa coerente quando la materialità affettiva dello spazio di vita delle persone è rilevabile. Il lettore deve poter sentire l’odore dell’aria di mare e il sapore della birra. È per questo che il livello intermedio (il mesolivello) ravviva e a volte mette in discussione i resoconti storici ad ampio raggio: tra gli individui di spicco e le grandi forze sociali non può non esistere un sensore vivente che consenta di far emergere, e persino di far prosperare, gli accordi rivoluzionari. Nel quadro di questo livello intermedio, le interazioni non si limitano ad abitare il micro o a riflettere il macro: costituiscono le condizioni stesse che rendono possibile alle persone di essere ciò che vogliono essere e alla storia di muoversi altrimenti. Sebbene tutti e tre i livelli siano necessari nel loro intreccio, può darsi che lo spazio cruciale per dare vita a un movimento politico sia quello intermedio.
Al contempo, per contestualizzare i livelli della micro e della mesoanalisi, è necessario un quadro coerente del più ampio contesto strutturale e processuale. La risposta alla domanda «dal basso rispetto a cosa?» che viene implicitamente sollevata quando si scrive la storia dal basso è, in una parola «il potere». È necessario capire come si configura il potere così da poter inquadrare le relazioni degli individui e dei gruppi con questo potere. Le strutture e i processi al macrolivello sono fondamentali per stabilire questa configurazione e immaginarne la trasformazione. Lo scoraggiante testo di Thompson si lancia in una sequenza di storie complicate, che accumula con poca attenzione alla necessità del lettore di avere un quadro più generale in cui inserire gli elementi più avvincenti. L'autore fa riferimento a decine di personaggi ed eventi affascinanti, presentandoli in modo meravigliosamente dettagliato ma anche privo di contesto. Viceversa, il lettore non specialista chiede di poter collocare gli eventi narrati in un quadro più ampio. I punti di riferimento nel macrolivello possono essere linee temporali, riassunti cadenzati di informazioni di base, sintesi delle relazioni storiche su larga scala, resoconti dei modelli che emergono nel tempo e abbozzi dei repertori discorsivi disponibili cui gli attivisti hanno potuto attingere nel loro racconto individuale e collettivo. Contesto, ovviamente, non significa sfondo passivo: come ha messo in rilievo Tsing, il paesaggio non è un palcoscenico statico, ma è parte integrante dell’azione.
Esiste una via di mezzo praticabile tra il piccolo campione di donne della Comune di Parigi di Eichner e l’oceano di attori della classe operaia inglese di Thompson? L’attenzione di Eichner consente un livello di dettaglio accattivante, mentre il suo arco narrativo, che integra le vite delle donne nella vita della Comune, offre un veicolo elegante per attraversare la storia a più livelli. La complessità della narrazione al mesolivello dell’associazione per la difesa dei lavoratori di Demitrieff, del giornale e delle riforme scolastiche di Léo e dei circoli politici di Mink crea un denso strato intermedio che collega gli individui alla Comune. Una cornice cronologica come la narrazione della Comune proposta da Eichner o il racconto della ribellione degli schiavi dell’Amistad proposta da Rediker presenta un inizio, una metà e una fine ben identificabili, il che rende la storia più avvincente. La ricerca anarchica trae vantaggio dalla narrazione di storie concettualmente rilevanti, invitando i lettori a esercitare la loro curiosità e contribuendo al pensiero creativo e critico sulle lotte per mondi migliori.
In sintesi, ho presentato un incontro possibile tra storie anarchiche e «storia dal basso» con l'obiettivo di un'elaborazione ulteriore degli strumenti di analisi che la seconda può offrire alle prime. La domanda importante non è «gli autori sono anarchici?», né «si occupano di anarchismo?», ma è chiedersi cosa possiamo imparare dalla cura che mettono nel dare risalto a una voce o all’agentività dei soggetti storici, dalla peculiare attenzione che dedicano alle loro fonti e dal loro senso di responsabilità nei confronti di chi, per riprendere le toccanti parole di Hartman (2019, p. xv), «non ha ricevuto nulla». Come raccontare quindi storie anarchiche, non solo di grandi individui o di grandi eventi, ma anche di movimenti vivaci e dei nessi che li creano e li tengono insieme? Le pratiche di scrittura esplicite e implicite della «storia dal basso» sono fondamentali per sviluppare storie anarchiche ricche e vitali.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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traduzione di Andrea Carbone
Kathy Ferguson insegna nella University of Hawaiʻi a Mānoa nei dipartimenti di Scienze politiche e Women's Studies
Fonte: “Anarchist Studies”, n. 30.1 www.lwbooks.co.uk/journals/anarchiststudies/
[1] Zimmer cita Robin D.G. Kelley, Hammer and Hoe: Alabama Communists during the Great Depression (Durham, NC: University of North Carolina Press, 1990), p. xi. Kelley a sua volta cita Victorio de Grazia, «For a Social History of Politics», Radical History Review, vol. 1980, issue 23 (Spring 1980): 3-7.
[2] Rediker ha confermato che il Mende diventa una lingua scritta in epoca più tarda. Il Vai, la lingua del re Siaka che commerciava schiavi, aveva un precedente sillabario scritto proveniente dalla stessa regione, quindi è possibile che alcuni degli africani della Amistad conoscessero il Vai scritto. Ma non ci sono prove in tal senso, e in ogni caso la loro lingua non era ancora scritta, quindi la scrittura di lettere probabilmente non era un genere familiare (conversazione personale, 13 aprile 2019).
[3] Alcuni neuroscienziati invitano a concentrarsi maggiormente sul mesolivello. Walter Freeman (pp. 31-32) osserva che il mesolivello è importante per lo studio del cervello e definisce i neuroni come «ponti mesoscopici». Sostiene anche che descrivere gli scambi tra i livelli è difficile perché «le misure di tempo e distanza sono incommensurabili e l’inferenza causale è molto più ambigua tra i livelli che nel loro stesso ambito». Liljenström e Svedin (p. 5) concordano sull’importanza del «livello intermedio tra il micro e il macro, in quanto è l’ambito in cui il bottom-up incontra il top-down». Tuttavia, utilizzano termini come «scale» (per i connettori, p. 6) o come «ponti», e questo a mio avviso restituisce un’immagine statica, mentre io sceglierei piuttosto un'immagine che rimanda alle correnti o ai flussi.
[4] Diversi recensori di James lo elogiano per aver parlato a nome della gente comune: ad esempio, Cudjoe e Cain («Introduzione», p. 5) sottolineano il suo «sconfinato affetto e la sua stima per l’arte e l’immaginazione della gente comune». Robin Blackburn (The Black Jacobins and the New World Slavery, p. 82) sostiene che «non dimenticò mai la presenza degli anonimi ribelli e dei partigiani neri che alla fine giocarono un ruolo più decisivo dei famosi generali e dei politici». Si vedano anche i saggi di Helen Pyne-Timothy e H. Adlai Murdoch in questo numero [“Anarchist Studies”, n. 30.1]. È probabile che questi critici abbiano ragione nel mettere in rilievo le affiliazioni politiche e intellettuali di James: ho scelto di mettere tra parentesi questi elementi per concentrarmi più specificamente sulle pratiche retoriche utilizzate in The Black Jacobins, con l’obiettivo di imparare come scrivere al meglio la storia dal basso.