Colin Ward: un’ambigua eredità
di Matthew Wilson
Non ricordo esattamente quando mi sono imbattuto per la prima volta in uno scritto di Colin Ward, ma so per certo che è stato uno dei primi anarchici di cui ho letto qualcosa e di questa fortunata coincidenza temporale sarò sempre grato. Detto altrimenti, sono contento sia stato l’approccio particolare di Ward ad avermi inizialmente avvicinato all’anarchismo: non solo ha contribuito a dare forma al mio pensiero, ma ha anche caratterizzato il mio rapporto con la cultura anarchica, rapporto che ben presto avrebbe orientato la mia vita e quella di molti altri in giro per il mondo. Pochi anni dopo il mio incontro con il pensiero di Ward, l’anarchismo si affermò infatti come tratto distintivo nel panorama dei movimenti sociali radicali; e tuttavia si trattava di un anarchismo la cui visione risultava impoverita dall’apparente mancanza di interesse per uno dei suoi migliori esponenti. Vorrei cogliere questa occasione per onorare il lascito di Colin, in modo forse un po’ paradossale, rilevando quanto la sua influenza sulla prassi anarchica contemporanea sembri essersi affievolita nonostante il suo nome sia ancora piuttosto conosciuto. Lo dico volutamente in modo un po’ vago e generalizzante, non per esagerare l’importanza di Ward né per essere ingenerosamente sprezzante nei confronti degli anarchici contemporanei, ma per affermare la necessità di un rinnovato impegno nei confronti di Ward e della sua opera.
Certo, l’anarchismo è un movimento articolato, con una lunga lista di tradizioni e correnti, alcune delle quali apertamente antagoniste tra loro o apparentemente ignare una dell’altra. In questo senso, per molti anarchici, il pensiero di Ward è verosimilmente importante oggi come lo era ieri. Ed è altrettanto vero, come lo stesso Ward ha sottolineato nel suo bellissimo libro Influences, che le idee si insinuano fra e oltre le ideologie, attraverso le generazioni, separandosi così nel tempo e nello spazio – anche a causa del sommarsi delle citazioni – da coloro che le avevano inizialmente formulate. L’influenza di Ward è quindi ovunque attorno a noi, anche se non percepita e indiretta. Eppure, a mio giudizio, negli ultimi venti trent’anni la cultura anarchica dominante – il “senso comune” anarchico come mi piace definirlo – non si è particolarmente occupato di Ward e ha trascurato molti dei suoi più importanti e lungimiranti insegnamenti. A volte mi chiedo quanti anarchici sotto i quarant’anni citerebbero Ward fra le letture che li hanno influenzati, e a cosa potrebbe assomigliare oggi l’anarchismo se Ward fosse rimasto una figura chiave della cultura anarchica del ventunesimo secolo così come lo è stata per il ventesimo.
La complicata eredità di Colin Ward
Quando Ward entrò per la prima volta in contatto con l’anarchismo, il futuro di quest’ultimo doveva sembrargli piuttosto cupo. Il movimento anarchico nel Regno Unito si era via via assottigliato durante la maggior parte della prima metà del ventesimo secolo, e anche la sua rivitalizzazione durante la guerra civile spagnola venne infine soffocata dalla vittoria di Franco. Di fronte a una sconfitta così recente e di tale portata, con il mondo intero sprofondato nella guerra, non è difficile intuire perché l’anarchismo dovesse sembrare ai più deludente, se non proprio pericoloso. Non fu così per Ward, ovviamente, il quale non solo aderì all’anarchismo, ma sviluppò una sua propria voce all’interno di esso, e in un intervallo di tempo considerevolmente breve oltretutto. Non passò poi molto prima che l'anarchismo si risollevasse, con livelli di adesione e impegno mai visti prima. Nel 1968 era possibile veder sventolare bandiere anarchiche non solo a Parigi davanti alla Sorbona ma, come ci racconta lo stesso Ward, anche a Canterbury[1]. Nel dopoguerra, man mano che gli orrori del socialismo di Stato diventavano sempre più evidenti, l’anarchismo non appariva più un ingenuo utopismo, come era stato spesso definito; al contrario, per un numero crescente di persone iniziò ad apparire come l’unica strada possibile per auto-organizzarsi in modo umano e sostenibile. Come racconta Ward: “All’improvviso si tornò a parlare […] del bisogno di un decentramento sociale e politico, della gestione dell’industria da parte degli operai, di potere studentesco, di gestione comunitaria dei servizi sociali”[2]. Questi “nuovi anarchici”, come li definiva Ward agli inizi degli anni Settanta del ventesimo secolo, spuntavano come funghi, qua e là ma inesorabilmente, in tutto il mondo. Nonostante fosse senza dubbio ispirato e incoraggiato da questa rinascita Ward era tuttavia consapevole, come suo solito, del rischio concreto che questi semi di anarchismo potessero essere ancora una volta sepolti dal peso dello Stato. In Anarchia come organizzazione, il suo libro più noto, si chiedeva se “se la gente è riuscita a imparare qualcosa dalla storia degli ultimi cento anni”. E, cosa fondamentale, “se gli anarchici stessi avranno abbastanza fantasia e inventiva da riuscire ad applicare le loro idee alla società attuale […]”[3].
Le domande che gli anarchici avrebbero dovuto porsi erano tanto varie quanto vitali e l'opera di Ward potrebbe essere vista sia come un costante richiamo all'importanza di porle, sia come un inventario delle possibili risposte. Come sarebbero costruite e assegnate le case in una società anarchica? Come sarebbero educati i suoi bambini? Come sarebbero definiti e affrontati i comportamenti antisociali? Affrontando queste e innumerevoli altre pressanti questioni sociali, Ward aveva certamente lo sguardo rivolto in direzioni facili da immaginare (la storia del pensiero anarchico e i suoi noti e meno noti esponenti), ma ha anche cercato risposte ovunque fosse possibile trovarle, sempre con una mente aperta e un approccio non dogmatico. Questo significava leggere anche marxisti e liberali e confrontarsi con discipline come la sociologia, l’antropologia, l’architettura e la pianificazione urbana, letture che di primo acchito non avevano niente a che fare con il pensiero anarchico. Sia come scrittore sia come editor, Ward introdusse in modo sottile gli anarchici a un'impressionante gamma di idee provenienti da tutto il mondo, senza mai sentirsi in dovere di giustificare l’utilizzo di intuizioni utili prese da altri e riproposte sotto una lente anarchica. Gli anarchici hanno troppo spesso ceduto terreno ideologico a destra (come d’altronde hanno certamente fatto anche altri settori della sinistra) abbandonando idee assolutamente buone ritenute però non più valide perché adottate da altri con i quali su altre questioni non saremmo d’accordo. Nella coinvolgente raccolta di saggi Talking House Ward ad esempio scrive: “Non è colpa mia se il managerialismo burocratico si è impadronito delle politiche socialiste con la conseguenza che, nel clima di disillusione, parole d’ordine come autoaiuto e mutuo appoggio sono state tralasciate per essere poi sfruttate dal partito dei privilegiati”[4].
È difficile valutare se la visione dell'anarchismo di Ward sia stata influenzata dalla sua volontà di impegnarsi in una quantità così consistente di lavoro non anarchico, o se sia stata la sua visione dell'anarchismo – plurale, diversificata, rispettosa ed empatica – a dargli la possibilità di selezionare e prendere liberamente spunto da un mondo pieno di ottime idee spesso nascoste in luoghi improbabili. In ogni caso, Ward aveva ben chiaro che per lui l'anarchismo doveva sempre essere inteso come in tensione con altre tendenze politiche e sociali; ciò che conta, come scrive nella pagina finale di Anarchia come organizzazione, sono “quei mutamenti sociali, siano essi rivoluzionari o riformisti, attraverso i quali i popoli allargano le proprie sfere di autonomia e riducono la sottomissione alle autorità esterne […]”[5].
Adottando un termine utilizzato sia dalla sua generazione sia da quelle precedenti, Ward era convinto che questi cambiamenti sarebbero avvenuti attraverso l’azione diretta. Azione diretta significava creare “organizzazioni parallele, […] contro-organizzazioni, […] organizzazioni alternative, […] un maggiore controllo da parte dei lavoratori, […] un movimento per la descolarizzazione, […] la terapia comunitaria di gruppo, […] i movimenti per l’occupazione delle case e le associazioni di inquilini, […] le cooperative alimentari, […] organizzazioni di base di ogni genere […], i giornali comunitari, i movimenti a favore dei servizi sociali per l’infanzia, […] le comuni abitative, […] i consigli di quartiere”[6]. In breve, significava costruire un mondo nuovo, per quanto possibile e ovunque fosse possibile, nel guscio di quello vecchio, anche se quel vecchio mondo continuava ad esistere.
Gli altri nuovi anarchici
Se il 1968 è stato un anno di svolta per la generazione di Ward, in quanto a cambiamenti profondi dell’immaginario politico, il 1999 ha avuto un ruolo analogo per tutti coloro che come me erano cresciuti negli anni in cui gli yuppi avevano sostituito gli hippy e in cui la prospettiva di rimpiazzare il capitalismo con qualcos’altro sembrava ormai solo una fantasia. Esattamente come gli eventi del Maggio ’68, la battaglia di Seattle nel novembre di quell’anno fu l’evento istituente sia di una particolare analisi politica sia di un manifesto strategico per un cambiamento sociale basato non sulla presa del potere statale, ma sul potere delle persone che insieme lavorano per costruire un mondo migliore. Durante gli anni Novanta, il significato attribuito al termine «azione diretta» si era in qualche modo discostato da quello che gli attribuiva Ward, per essere sempre più spesso riferito ad atti di sabotaggio, blocchi e altre azioni per lo più illegali rivolte contro obiettivi specifici come i cantieri per la costruzione di nuove arterie stradali o i laboratori per la vivisezione. All’incirca in quel periodo, gli anarchici – e, aspetto da non trascurare, anche molti non anarchici – cominciarono piuttosto a parlare di prefigurazione. Per la generazione del ’99 e dintorni, prefigurare significava infatti proprio quel «costruire un modo nuovo nel guscio di quello vecchio» instancabilmente promosso da Ward e da generazioni di anarchici prima di lui, anche se con una spolverata di accorgimenti che lo aggiornavano al presente. Il primo e più importante di questi accorgimenti era fare piazza pulita del passato recente per riproporre l’anarchismo del ventunesimo secolo come un fenomeno fondamentalmente nuovo. Sebbene questo sentimento fosse perfettamente comprensibile per tutti coloro che, come me, erano travolti da un’ondata di attivismo percepito davvero come nuovo, il fatto che la coscienza popolare radicale dell’epoca sia stata dominata dall'idea che questa ondata di anarchismo rappresentasse un drastico allontanamento dalle generazioni precedenti, dovrebbe essere fonte di rammarico e di riflessione[7]. D’altro canto, questa fuorviante lettura del passato recente dell'anarchismo permise effettivamente di dare una svolta genuinamente nuova alla prassi anarchica. Per la generazione post ’99 infatti, il termine “prefigurazione” ha assunto un significato molto particolare: anche se l’azione diretta come la intendeva Ward esisteva ancora (spesso sotto la definizione di DIY), la prefigurazione promossa dai “nuovi” anarchici era significativamente orientata verso i mezzi dell’organizzazione politica. I presidi di protesta nella forma di campeggi autogestiti e le contromanifestazioni in occasione dei summit internazionali diventarono le tattiche standard, e il modo in cui venivano organizzati, attraverso la democrazia diretta basata sul consenso, era non solo importante, ma costituiva l’obiettivo principale di questa forma di attivismo; era il modo in cui si organizzavano le cose, più che le cose in sé, ad essere diventato il punto centrale della cultura anarchica. L’enfasi su una concezione così restrittiva, sebbene profonda, della prefigurazione ebbe spesso come conseguenza l’abbandono di quell’approccio orientato verso la costruzione della comunità a cui faceva riferimento Ward, in favore della creazione di spazi più “puri”, non contaminati dal riformismo dei liberali o dall’autoritarismo dei marxisti. L’approccio pluralista e pragmatico all’azione diretta di Ward si è così smarrito nell’arroganza di una generazione convinta che rifiutarsi di scendere a compromessi con quelli che loro percepivano come principi irrinunciabili dell’anarchismo equivalesse ad avere un approccio più radicale al cambiamento sociale. Tutto ciò che poteva essere visto come un compromesso su tali principi era rifiutato o ignorato.
Sia chiaro, né la generazione di Ward né la mia è riuscita a cambiare il mondo in modo profondo, ma mi sono spesso chiesto quanto più realmente ci saremmo potuti avviare verso un secolo anarchico se la voce di Ward non fosse stata soffocata e sostituita da una visione dell'anarchismo che, nonostante i proclami contrari, era notevolmente dogmatica e ideologicamente purista. La disponibilità di Ward al compromesso sarebbe stata rifiutata in toto da molti degli anarchici della mia generazione, ma il suo pragmatismo non era quello di chi da sinistra si è spostato al centro, di coloro i cui ferventi ideali sono stati lentamente intiepiditi dall’idea che il mondo non cambierà mai[8]. Ward era fedele ai principi anarchici come chiunque altro, ma questi principi lo portarono a capire il valore di aver a che fare con gli altri anche quando non condividevano completamente la sua idea di mondo. In definitiva, credeva nell’organizzazione della comunità, la comunità in questione non era però una zona temporaneamente autonoma piena di autoselezionatisi radicali, ma la cittadina in cui viviamo, le scuole in cui mandiamo i nostri bambini, gli inquilini il cui proprietario di casa è anche il nostro.
Nonostante possa passare inosservata in un saggio che è per lo più una spudorata propaganda anarchica, l'insistenza di Ward nel primo capitolo di Anarchia come organizzazione sul fatto che gli anarchici dovrebbero essere “sufficientemente inventivi e fantasiosi da trovare modi di attuare le loro idee oggi alla società in cui viviamo”, è solo un esempio di ciò che ha reso Ward una voce così importante. Oltre a essere un ardente sostenitore dell’anarchismo, era anche un pensatore che riconosceva la necessità di mettere in discussione il pensiero anarchico, i suoi postulati e gli occasionali dogmi, per provare a sviluppare un anarchismo all’altezza della complessità del Ventunesimo secolo. L’impegno di Ward verso l’anarchismo non è mai stato scontato, ma assunto con onestà e spirito critico, cosa che ha reso il suo lavoro un percorso infinitamente avvincente anche per il suo empatico rifiuto di scendere a compromessi con gli ideali anarchici, sempre accompagnato da un altrettanto fermo rifiuto, quello di lasciare che un approccio dogmatico e ideologico offuscasse la sua lettura sociologica del mondo. Qualsiasi concezione della società futura potessero avere gli anarchici, Ward non distolse mai l’attenzione dal semplice fatto che a quella società non ci eravamo ancora arrivati. Ad esempio, non considerò mai lo Stato come una forza potenzialmente progressista, ma bilanciava la sua posizione riconoscendo che difficilmente lo Stato sarebbe scomparso nel prossimo futuro. Fondamentalmente, Ward era interessato a praticare l’anarchismo, a dargli più vita possibile, senza aspettare che il peso dello Stato si facesse meno opprimente, ma al contrario facendolo proprio nel momento in cui grava maggiormente su di noi.
L’intellettuale attivista?
Nonostante quanto sostenuto finora, ossia la mancanza di influenza su una parte della cultura anarchica contemporanea, il contributo di Ward all’anarchismo nel suo complesso non è in discussione. In parte questo è dovuto alle idee che ha presentato in sé, ma vale la pena di fare attenzione anche al modo in cui le ha presentate. La modalità con la quale Ward ha svolto il suo lavoro è infatti tanto ammirevole quanto il contenuto; in qualche maniera, è riuscito a fare una critica delle idee anarchiche e a introdurre un nuovo modo di pensare l’anarchismo senza mai attaccare le posizioni di nessuno. Era allo stesso tempo modesto e persuasivo, e rivendicava con fermezza la sua visione dell’anarchismo senza sentire il bisogno di contraddire o sfidare apertamente quella degli altri.
Per certi versi era l’“intellettuale” ideale per gli anarchici. L’anarchismo ha sempre avuto un rapporto conflittuale con l’idea di intellettuale e con il lavoro intellettuale. In parte questo deriva da una critica più che ragionevole a un certo tipo di intellettuali e al loro approccio, ma in alcuni casi questa diffidenza si è trasformata in un rifiuto complessivo e poco sano del lavoro intellettuale, a prescindere da come fosse prodotto. Negli ultimi decenni, l’anarchismo è diventato sempre più accettato in alcuni ambiti del mondo universitario con molti risultati positivi. Questo riconoscimento ha portato a una crescita nella produzione di articoli accademici che farebbe drizzare il pelo a più di un anarchico, a conferma della loro visione degli intellettuali come di persone completamente disinteressate alla pratica anarchica e scollegate da essa. All’opposto il lavoro di Ward collega splendidamente teoria e azione, è scritto estremamente bene ed è accessibile a chiunque. Non richiede conoscenze pregresse, nessuna competenza accademica e di solito si occupa di questioni molto pratiche pur confrontandosi con una ricca complessità teorica ed empirica.
A cento anni dalla sua nascita, è più che giusto celebrare Colin e le tante cose che ha compiuto. Ma spero che la comunità anarchica possa fare più di questo. Lo scoppio di attività anarchica successiva al 1968 e al 1999 è stato in entrambi i casi piuttosto breve e oggi siamo in una situazione decisamente meno favorevole anche solo rispetto a dieci anni fa. L’assolutismo intrinseco a molta della teoria e della pratica anarchica di inizio ventunesimo secolo ha funzionato per un breve periodo, ma era in definitiva insostenibile. Ward ci ha indicato una via per riflettere su come possiamo impegnarci in un mondo non anarchico senza perdere la radicalità della nostra voce, e ha sempre combattuto instancabilmente sostenendo la necessità di questo tipo di impegno. “Sono felice”, disse in una occasione, “di essere un opinionista anarchico che scrive sulla stampa non anarchica”[9]. Sembrava anche essere immune, al punto da esserne forse persino divertito, dalle accuse di essere un riformista, un liberale, addirittura un “agente del partito laburista”. Ward non aveva tempo per coloro che interpretavano l’anarchismo come il rifiuto di relazionarsi con chi aveva convinzioni differenti, e il suo lavoro fu di conseguenza molto più ricco e, all'epoca, molto più influente. È forse giunto il momento di riprendere Ward e il suo lavoro per raccogliere gli insegnamenti di colui che potrebbe certamente rivendicare – anche se dubito lo avrebbe mai fatto – di essere stato uno dei propagandisti anarchici di maggior successo. Come ho argomentato altrove, abbiamo un disperato bisogno di trovare modi di lavorare al fianco di altri movimenti e tradizioni radicali e progressisti se vogliamo mettere fine all’egemonia capitalista, e in questo compito pochi pensatori possono essere più utili di Colin Ward.
traduzione di Abi
Matthew Wilson è ricercatore e docente presso la Swansea University. Il suo lavoro esplora la strategia politica e la politica prefigurativa. È attivo nell’organizzazione della scena cooperativa radicale.
Titolo originale: Colin Ward: an Ambiguous Legacy
Fonte: "Anarchist Studies", vol. 32, n. 2, 2024
Note
[1] Quanto di questa rinascita sia dovuto all'instancabile lavoro di Ward è una questione irrisolta, ma di certo è stato una figura centrale all'interno della scena britannica fin dai primi anni della sua vita da anarchico.
[2] Colin Ward, Anarchy in Action, Freedom Press, London, 2008 (1973), p. 25 [trad. it. Anarchia come organizzazione, elèuthera, Milano, 2019 (1996)].
[3] Ibid, p. 38 [trad. it. pp. 16].
[4] Colin Ward, Talking Houses, Freedom Press, London, 1990, p. 9.
[5] Colin Ward, Anarchy in Action, cit., p. 172. [trad. it. p. 219].
[6] Ibid, pp. 165-66 [trad. it. pp. 210-211].
[7] Giusto per fare un esempio, David Graeber, il cui lavoro è considerato influente e rappresentativo dell’anarchismo del ventunesimo secolo e che ha contribuito a diffondere l’idea che si trattasse in effetti di un’ondata di “nuovo” anarchismo, non menziona Ward in nessuno dei suoi tre testi principali: Direct Action [trad.it. Rivoluzione: istruzioni per l’uso, BUR, Milano, 2012], Possibilities e Fragments of an Anarchist Anthropology, [trad. it. Frammenti di antropologia anarchica, elèuthera, Milano, 2020 (2006)]. Che lo abbia letto, o che fosse a conoscenza della cultura anarchica di cui Ward era parte, non è chiaro; quel che è certo è che Graeber, e con lui molti altri, presentarono l’anarchismo in cui si impegnavano come nuovo, in un modo difficilmente difendibile. In un sondaggio molto poco scientifico, ho chiesto a sette giovani anarchici sotto i trentacinque anni che cosa pensassero di Ward; tre di loro non ne avevano mai sentito parlare, tre sapevano il suo nome e niente di più e l’ultimo ha risposto: “Beh era un po’ troppo liberale, preferisco Malatesta”.
[8] Da questo punto di vista, Ward mi ricorda il grande teorico marxista Stuart Hall. Mi chiedo a volte se fossero a conoscenza dei rispettivi lavori, avevano certamente in comune più di quanto le etichette politiche che li identificavano potessero suggerire.
[9] Colin Ward, Notes of an Anarchist Columnist, “The Raven”, 3, 4, 1990, p. 319.