Intervista a Claire Auzias raccolta a Parigi nel novembre del 1997
Estratto dell'intervista tradotto in italiano
Mi chiamo Claire Auzias. Ho 46 anni: il che vuol dire che nel ‘68 avevo solo 17 anni. Vivo a Parigi; il mio mestiere è quello di storica. Per parlare del ‘68, affronterò le domande una ad una.
Se è legittimo non lo so, ma per me è evidente che il ‘68 è un anno simbolo in quanto data di una rivoluzione. Ma di quale rivoluzione si tratta?
Io penso che il ‘68 è una rivoluzione importante come tutte le altre rivoluzioni che l’hanno preceduta nel corso della storia, della stessa ampiezza e della stessa importanza della rivoluzione francese, di quella del 1848, del 1871 per quel che riguarda la Francia, e del 1936, naturalmente, anche se non era in Francia.
Ritengo sia stata la prima rivoluzione effettivamente simbolica, contrariamente alle altre che erano rivoluzioni in nome di simboli – bisogna stare attenti a fare la differenza – che dovevano istituire cose molto concrete (per esempio, nella rivoluzione francese la destituzione dell’aristocrazia). Da questo punto di vista il ‘68 non è naturalmente una rivoluzione, non è la replica esatta delle rivoluzioni precedenti, ma è una rivoluzione – dal mio punto di vista – nel vero senso del termine.
Cosa vuol dire simbolica? Vuol dire che per noi era più importante creare la rivoluzione che mettere la classe operaia al potere.
Era molto facile per noi dire questo, perché avevamo l’esperienza delle classi operaie che erano state messe al potere in passato e di cui avevamo fatto la critica; di conseguenza non avremmo rifatto quello che avevamo criticato.
Per me, poi, era ancora più facile perché avevo 17 anni. A questo proposito penso che il momento in cui la rivoluzione del ‘68 è arrivata nella propria storia personale è fondamentale: non era la stessa cosa avere cinquant’anni come Daniel Guérin o essere una liceale.
Io ero al liceo, non militavo in nessun gruppo, ma avevo una cultura rivoluzionaria abbastanza sviluppata in quanto appartenevo ad una famiglia francese di intellettuali comunisti, comunisti peraltro non apparatchik ma piuttosto gramsciani, che erano stati perfino espulsi dal partito comunista e quindi molto critici. Così, senza essere una militante, avevo «bevuto» il comunismo col biberon e sapevo già che non c’era niente di peggio del partito comunista in una rivoluzione. In più, non venendo da una famiglia operaia, ma da una famiglia di insegnanti della classe media, per me era molto facile non essere operaista, non lo ero mai stata proprio grazie a questa cultura. Oltretutto, rientravo dagli Stati Uniti dove avevo passato un anno, il 1967, in un campus universitario: niente era più rivoluzionario, ai miei occhi, della controcultura americana dell’epoca. E qui arriva il ‘68. Avevo già conosciuto i beatniks, avevo già conosciuto gli inizi del movimento delle donne, anche se non ancora il vero e proprio movimento delle donne, avevo conosciuto il movimento dei neri americani, e sguazzavo in tutta questa cultura, con in più il background del marxismo critico.
Arriva il ‘68 ed è naturale, per me, adottare le posizioni più innovatrici, più radicali del ‘68, e cioè non quelle anarchiche «ortodosse», ma quelle più creative ed innovatrici, si potrebbe dire quelle libertarie proprie del ‘68, anche se è restrittivo. A questo proposito, dirò di peggio: secondo me, gli anarchici di oggi hanno recuperato il ‘68. Naturalmente, spiegherò meglio quello che dico.
C’era ovviamente Dany Cohn Bendit, il nostro idolo. Io ero liceale a Lione e non ho mai incontrato Dany all’epoca, ma non si sarebbe potuto trovare migliore portavoce della nostra rivoluzione. Sono entrata nel Movimento 22 marzo a Lione [l’aggregazione anarco-libertaria più importante del maggio francese]. Dany Cohn Bendit era un libertario, ma Jean-Pierre Duteuil, il compagno che con Dany aveva creato il Movimento 22 marzo, era un vero e proprio anarchico, e quindi c’era effettivamente, nel ‘68, sia l’anarchismo che il libertarismo. Tuttavia, ancor più dell’anarchismo c’era soprattutto il situazionismo, che era per noi fondamentale e più estremo dell’anarchismo «ortodosso». Il situazionismo era, soprattutto per dei giovani liceali come noi, una delle espressioni più contemporanee. C’erano poi il Living Theatre, le ispirazioni poetiche, le avanguardie artistiche. C’erano i surrealisti (ma erano già molto superati), i dadaisti, ecc., insomma nel ‘68 c’erano aspetti surrealisti, dadaisti, situazionisti, poetici, e non solo anarchici e libertari.
Per esempio il famoso slogan «l’immaginazione al potere» può essere oggi considerato libertario. Certamente lo è, ma prima di tutto è uno slogan poetico e artistico, di tutti gli artisti rivoluzionari del XX secolo. Dirò di più, è uno slogan artistico «maoista», perché in questo slogan c’è anche un problema di antagonismi, di contraddizioni: «l’immaginazione al potere» è complicato da gestire secondo me, sono due concetti che non sembrano stare bene insieme.
Ma dal punto di vista dei giovani come me, che non erano militanti di un gruppo politico preciso, l’anarchismo era naturalmente quello che ci era più affine, anche se si trattava di un anarchismo molto innovatore, molto creativo. Anzi, prendevamo in giro in modo spietato l’anarchismo «ortodosso»: per noi erano dei vecchi che non avevano capito niente e che non erano per niente «di moda».
Ho parlato di rivoluzione simbolica. Lo si è affermato spesso in seguito, perché pensavamo – e continuo a pensarlo: confesso che da questo punto di vista sono incorreggibile – che la rivoluzione dei simboli, la rivoluzione dei concetti, la rivoluzione dell’immaginario, è un motore della storia molto più potente della rivoluzione economica quando non ha supporti immaginari. Il nostro problema di fondo era l’autorità: è forse più esatto dire che eravamo anti-autoritari più che anarchici, perché eravamo dei fanatici della critica di tutte le autorità, fanatici come si può esserlo a 17 anni e non si ha niente da perdere.
Naturalmente, il primo obiettivo della nostra critica veemente ed impietosa era la famiglia, poi il patriarcato, ma non nel senso che gli avrebbe dato il successivo movimento delle donne quanto piuttosto in un senso più antropologico, come struttura globale della società: il padre che gestisce gli uomini e le donne, i figli, i giovani, ecc. Oggetto di critica era ovviamente la scuola, ma anche gli stessi militanti più vecchi che volevano dirigerci e dirci quello che dovevamo fare. Insomma, tutti passavano attraverso la nostra critica. Anche in questo senso parlerei di rivoluzione dei simboli: criticavamo il potere dei professori, il potere del sapere… tutti i poteri. E credo che questo abbia dato potenza immaginativa ad altre categorie sociali, ha scatenato un desiderio rivoluzionario generalizzato.
Secondo me, gli operai che non facevano parte di alcun apparato di partito hanno voluto entrare nel gioco perché era veramente troppo bello e perché anche loro avevano qualcosa da dire in termini di critica simbolica… prima di essere recuperati dagli apparati politici come il partito comunista e la CGT ([la centrale sindacale social-comunista]. Ma è stato solo dopo qualche tempo che tutto si è trasformato in rivendicazioni salariali ecc. ecc.; per far piacere a De Gaulle e perché la rivoluzione non esplodesse.
Ci sono stati antecedenti libertari? Penso che ce ne siano sempre stati, in tutte le rivoluzioni, solo che chiamarli libertari è ancora una volta una riscrittura della storia. Se prendi la rivoluzione francese del 1789, quel primo anno è un’esplosione rivoluzionaria, un’esplosione d’immaginazione critica, rivendicativa, creatrice, ma non è libertario, è un’esplosione creatrice rivoluzionaria. Quindi, penso che in tutti gli inizi di rivoluzione, ovunque, c’è qualcosa che somiglia al ‘68, ma non appare evidente perché, dopo, gli apparati politici legittimi rimettono sempre tutto in forma, nella loro forma, per motivare la loro appropriazione del potere. Quindi, ci sono stati effettivamente antecedenti libertari, ma credo che ce ne siano stati in tutte le rivoluzioni. Il ruolo della cultura? È una domanda che io affronterei in modo diverso perché, se ce lo ricordiamo, la rivoluzione culturale era un concetto maoista che ci faceva ridere, lo criticavamo. Parlare, perciò, di rivoluzione culturale, significa in realtà riesumare concetti maoisti.
Il ‘68 non è una rivoluzione culturale: è una rivoluzione punto e basta. Al massimo è una rivoluzione del desiderio, è un desiderio di rivoluzione. Il desiderio di rivoluzione è un concetto diverso da quello maoista e credo che sia appunto questo il fatto nuovo: che dei giovani arrabbiati, incontrollabili e incontrollati, abbiano messo in atto questo desiderio di rivoluzione, dando fuoco alle polveri. E aspettiamo soltanto una cosa: di ricominciare (salvo che saranno altri a farlo, per noi sono già passati trent’anni).
Il ‘68 ha espresso una nuova maniera di essere e di agire? È una domanda molto difficile da fare a quelli che sono stati gli «arrabbiati» del ‘68, che in fondo, se li si conta, non erano molti, soprattutto se paragonati ai 10 milioni di scioperanti in Francia. Quella che viene chiamata generalmente «la generazione del ‘68», gli «arrabbiati», era tutto sommato costituita da una manciata di persone. A Nanterre erano 142, a Lione 30. Un pugno di persone. Porre una domanda simile a queste persone è molto doloroso, perché dopo il ‘68 abbiamo vissuto una regressione continua: delle nostre vite, della società, del pensiero, dei mezzi di sussistenza, ecc.
Ma naturalmente per gli altri è stato l’inizio di un nuovo modo di pensare, anche se è difficile affermarlo in modo univoco perché subito tutto è stato recuperato dalla pubblicità, dalla società mercantile, e dal momento in cui è stato commercializzato ha perso, beninteso, ogni dinamica e ogni capacità rivoluzionaria.
È stato allora l’inizio di un nuovo modo di agire e di pensare? Naturalmente il ‘68 ha creato un mucchio di movimenti che hanno cambiato la società: il movimento delle donne, il movimento giovanile, il movimento degli omosessuali, la critica della gerarchia in seno agli stessi partiti, ecc. Tutto questo è vero, ma non è stato creato da quelli che hanno fatto la rivoluzione, bensì da altri, e quindi la mia risposta sarà, come dire, ambivalente.
Ritengo che ci sia stata gente capace di mantenere il potenziale creativo del maggio ‘68 più a lungo di altri, in particolare quelli più vecchi; cosa normale del resto: i vecchi rivoluzionari, quelli che hanno vissuto e agito nel ‘68 con un capitale rivoluzionario alle spalle, cioè con un’esperienza anteriore al ‘68, hanno potuto attraversare l’evento e venirne fuori. Al contrario, per i giovani come me è stato molto più difficile riprendersi. È stato molto duro per due ragioni: la prima è che c’è stata a posteriori una specie di invisibilità, di negazione totale dei più giovani che invece durante gli eventi erano stati protagonisti e che, nel discorso rivoluzionario, avevano predominato sui più vecchi. Questa è la prima ragione: i giovani, dopo, sono scomparsi, non hanno più avuto la parola, non gli è mai stato chiesto il parere… La seconda è che hanno avuto molta più difficoltà degli altri a riprendersi: quando cominci la vita sulle barricate e sai che – come ti hanno così ben insegnato i situazionisti – il resto del tempo lo passerai nella noia, è effettivamente difficile ritrovare un equilibrio e scendere a patti.
Quelli che invece nel ‘68 non erano stati in prima linea, hanno creato in seguito una gran quantità di movimenti, molto fecondi per la trasformazione della società francese e internazionale. Per gli altri, invece, il dopo è stato un processo di restaurazione continua, una negazione politica totale, una specie di obbligo a dimenticare. Molti, naturalmente, non si sono ripresi. Non hanno più avuto la minima voglia di fare qualcosa, ora che non c’erano più le barricate. Non hanno nemmeno avuto voglia di far parte di un gruppo militante, politico, creativo, o artistico, niente.
Alcuni hanno ritenuto che era finita una volta per tutte, che non valeva la pena di stancarsi per nessun’altra causa, che il ‘68 non sarebbe mai più tornato. Un’altra vita, ma non più la vita della rivoluzione. Questa restaurazione è stata, dal mio punto di vista, non solo violenta ma voluta, non si è trattato cioè di un meccanismo inconscio o puramente funzionale della società quello che ha spinto a seppellire il ‘68 sotto uno strato di totale silenzio, ma è stato un meccanismo voluto, organizzato, perseguito: «Basta. Siete degli ex-combattenti, farneticate». Eravamo degli ex-combattenti già tre mesi dopo! Non ancora maggiorenni – nel ‘68 la maggiore età era a 21 anni – alcuni mesi più tardi eravamo già dei reduci, dei rimbambiti.
Davvero pochi – a mia conoscenza – di quelli che erano stati nel movimento si sono poi ritrovati nei gruppi militanti successivi. C’è stata una cesura radicale tra il maggio ‘68 e il dopo, e molti militanti di allora non hanno mai più messo piede in alcun movimento politico esistente, nemmeno in quello anarchico. Viceversa, c’è subito stata da parte dei movimenti che si sono costituiti dopo la voglia di appropriarsi del ‘68, e questa appropriazione è stata fatta escludendo quelli che erano venuti prima e che avevano agito all’epoca. Un rapporto di potere ordinario: si buttano fuori quelli che ci hanno preceduto e poi ci si appropria delle loro cose. […]
Non bisogna però dimenticare che nel ‘68 c’erano molte donne di tutte le età e in tutti i gruppi. Intorno al Movimento 22 marzo di Lione – dove c’erano liceali e studenti universitari ma solo uno o due operai – c’erano quelli che chiamavamo i borgatari, i katanghesi. Ci piacevano moltissimo, erano il nostro popolo: i katanghesi, i ladri, gli esclusi, i vagabondi che dormono sotto i ponti, che si drogano.
E c’erano molte donne, studentesse ma anche militanti più vecchie già presenti dagli anni Sessanta in tutte le opposizioni.
Il Movimento 22 marzo a Lione era influenzato dal lussemburghismo. Era un po’ diverso da Parigi e molto, molto interessante. Era formato da due gruppi: il gruppo Bakunin, vicino a «Noir et Rouge», e poi i trotzkisti della Lega Comunista Rivoluzionaria, contrapposti a quelli parigini in quanto lussemburghiani. In più a Lione c’erano i situazionisti. E tra loro c’era una donna, militante di punta, una figura carismatica per tutto il 22 marzo: è morta due anni fa, si chiamava Françoise Routier ed era riuscita a imprimere un tratto molto femminile, e non femminista, al movimento libertario e rivoluzionario. Non era anarchica, ma...
Nessuna era femminista all’epoca, questo ancora non esisteva: erano i problemi della contraccezione e dell’aborto che interessavano, la diffusione della pillola e le compagne che abortivano in condizioni catastrofiche o che dovevano andare a Ginevra o in Inghilterra. Il ‘68 è stato anche una rivoluzione sessuale che non aveva niente di particolarmente femminista. La rivoluzione sessuale era la liberazione sessuale: scopare il più possibile tutto quello che vi piaceva, quanto si voleva. Più si scopava, più si era rivoluzionari.
È solo molto più tardi, cioè alla fine del ’69, che è apparso il primo giornale femminista in Francia, a Parigi. Si chiamava «La Mensuelle» e ci piaceva moltissimo, lo trovavamo straordinario, ma non era stato creato da donne di cultura anarchica o libertaria bensì da donne maoiste. La formazione del pensiero femminista è dunque passata attraverso lo stampo dominante del maoismo, di conseguenza, le donne come me, che venivano dal Movimento 22 marzo e più in generale dal movimento libertario, non potevano certo riconoscersi in questo movimento. Criticavamo tutti i gruppi, figurarsi quindi se andavamo a metterci in un movimento di donne sì, ma maoiste! E infatti mi sono unita al movimento delle donne molto tempo dopo, nel ’76, quando non c’era più alcun rapporto con il ‘68. Ma il movimento delle donne, lo ribadisco, non ha assolutamente alcun rapporto con il ‘68: se il ‘68 non ci fosse stato, il movimento delle donne sarebbe esistito ugualmente perché è nato negli Stati Uniti, dalla Women’s Lib. ecc., e accompagna la diffusione della pillola e la liberazione sessuale. L’unico collegamento è che il grosso delle femministe, all’inizio del movimento, erano state militanti in gruppi sia maoisti, sia spontaneisti (anche se non c’era quasi nessuna anarchica), e in seguito sono arrivate anche le trotzkiste. Ma se è vero che hanno partecipato al ‘68, non c’è secondo me alcun rapporto tra il movimento delle donne e il ‘68, o meglio non c’è filiazione diretta. […]



