Dominique Girelli nasce a Civitella di Romagna (FC) il 19 febbraio 1893 da Giovanni e Teresa Faggi, operaio metalmeccanico. Primogenito di quattro tra fratelli e sorelle, cresce in una famiglia poverissima e può frequentare la scuola solo fino alla terza elementare. Il padre è contadino e la madre pecoraia, entrambi analfabeti. Nel 1905, a soli 12 anni, parte per la Francia con il padre emigrato per lavoro. Si stabilisce a Homécourt, in Meurthe-et-Moselle, dove nel 1906 è assunto come operaio in una officina locale dove già lavora il padre. Giovanissimo nel 1908 si avvicina all’anarchismo, leggendo i primi giornali e discutendo con emigrati italiani di idee libertarie. Sono gli anni decisivi per la sua formazione. Conduce una vita morigerata, dedicando alla lettura di cui è appassionato cinque o sei ore tutti i giorni (dopo aver lavorato 10 ore in officina), formandosi una disceta cultura da autodidatta. Una certa influenza esercita inizialmente su di lui Virgilio Gemelli, un compagno di lavoro sposato con una sua cugina, originario di Civitella e animatore del locale gruppo anarchico, amico di P. Gori. Nei periodi che G. trascorre a Civitella, dove rientra per un mese di ferie ogni due anni, diventa compagno inseparabile di alcuni giovani anarchici del paese suoi coetanei, tra i quali Cairo Giovannini e Leandro Arpinati, futuro ras del fascismo bolognese, all’epoca anarchico individualista. Negli anni successivi frequenta anche il socialista Torquato Nanni, nella vicina Santa Sofia. Pur riluttante, su insistenza del padre che gli prospetta le conseguenze negative della renitenza alla leva, nel 1913 G. rientra in Italia per il servizio militare. Dopo due mesi è talmente depresso e deperito che ottiene un anno di convalescenza da trascorrere a casa. Durante la convalescenza, nel giugno 1914 scoppia lo sciopero insurrezionale della Settimana rossa. Prende parte a tutte le manifestazioni nel paese, mettendosi in luce per numerosi episodi. In particolare, con un bastone e una corda infilati nei battenti della porta, tiene segregati per una settimana nella loro caserma i carabinieri del paese. Con assi e chiodi sbarra anche la porta della chiesa. Colloca di notte una bandiera rossa e nera in cima alla Torre pubblica. Dopo la fine dei moti non subisce conseguenze. Tornato al battaglione, di stanza a Verona, allo scoppio della guerra si rifiuta di usare le armi e si dichiara disposto ad andare in carcere, ma è convinto a svolgere il servizio senz’armi, come infermiere portaferiti. Accetta perché la soluzione non è in contraddizione con i suoi ideali umanitari. Svolge servizio prima nelle retrovie poi al fronte. Nel novembre 1917 viene fatto prigioniero dagli austriaci sull’Altipiano della Bainsizza, durante la rotta di Caporetto. È mandato prima in un campo di concentramento nell’Ungheria meridionale, poi a lavorare, negli ultimi mesi di guerra, presso una famiglia di contadini in un villaggio. Liberato dalla prigionia alla fine della guerra, deve riterminare il servizio militare. Dopo il congedo riprende a svolgere attività politica a Civitella, svolgendo in particolare un’intensa propaganda antielettorale per le elezioni del 1919. Alla fine dell’anno si reca a Genova in cerca di lavoro. L’8 gennaio 1920 è arrestato durante una manifestazione, condannato con la condizionale e rimpatriato a Civitella con foglio di via. La mattina dopo riparte e torna a Genova, dove dopo più di tre mesi trova finalmente lavoro presso la San Martino Macchine Agricole, un’officina meccanica del gruppo Ansaldo, con circa 500 operai. Nella stessa azienda lavorano una quindicina di anarchici, fra i quali il toscano Emilio Grassini, e alcune decine sono gli aderenti all’USI (G. collabora con loro, ma non aderisce in odio a tutte le tessere). Nel settembre del 1920 prende parte attiva all’occupazione delle fabbriche, nel corso della quale gli operai continuano la produzione da soli e sorvegliano armati gli stabilimenti. Con i compagni di lavoro costruisce, con spezzoni di tubi riempiti di esplosivo, numerose bombe che poi vengono nascoste in luoghi diversi. Implicato in un furto d’armi avvenuto in una caserma militare, nella notte tra il 30 e il 31 dicembre 1920 riesce in modo rocambolesco a sfuggire all’arresto mentre una decina di poliziotti irrompono nella sua abitazione. Dopo alcune settimane di latitanza decide di riparare in Francia, dove conosce l’ambiente e la lingua. Si stabilisce nella regione di Parigi, dove risiederà per il resto della sua esistenza. Nel 1923, dopo alcuni anni di unione libera, si sposa con la sua affittacamere di Genova, vedova di guerra con una figlia piccola a carico e dalla quale ha un figlio. Quando finalmente ottiene il permesso di soggiorno la situazione migliora. Per sei anni lavora alla Renault di Billancourt, ma è licenziato per avere preso parte allo sciopero in occasione del 1° maggio del 1930. Attraversa di nuovo un periodo di difficoltà economiche, che non gli impediscono di svolgere un’importante attività a sostegno delle vittime politiche e dei compagni italiani in fuga dal fascismo, che affluiscono numerosi in Francia, e che spesso proprio grazie a G. trovano cibo, lavoro, alloggio. Nel 1936, allo scoppio della Guerra Civile, insieme a molti altri compagni accorre in Spagna a combattere in armi il fascismo. Passa diversi mesi al fronte, prendendo parte ad alcuni combattimenti. Nell’aprile 1937 ottiene una licenza e ritorna a Parigi per rivedere la famiglia. Dopo quindici giorni, mentre con un piccolo gruppo di compagni sta per rientrare in Spagna, viene arrestato dalla polizia francese alla frontiera di Perpignano, e condannato ad alcuni mesi di carcere per avere infranto le norme, appena entrate in vigore, varate dal governo Blum in omaggio alla politica del “non intervento”. Liberato, su consiglio di alcuni compagni rinuncia a rientrare in Spagna dove, dopo i fatti del maggio 1937 a Barcellona e l’inizio della repressione stalinista nei confronti di anarchici e poumisti, la situazione si è ormai deteriorata. A Parigi G. affronta Luigi Longo e altri dirigenti comunisti in occasione di pubblici dibattiti accusandoli di complicità nell’assassinio di Camillo Berberi e di altri militanti libertari, e rischia per questo di essere aggredito. Nel luglio del 1938 è arrestato nell’ambito delle misure precauzionali adottate per l’imminente visita del re d’Inghilterra. Accompagnato alla frontiera con il Belgio, è espulso e diffidato a rimettere piede in Francia se non vuole incorrere in una pesante condanna. Il giorno dopo è di nuovo clandestino a Parigi. Durante l’occupazione nazista è segnalato dalla polizia francese alle autorità tedesche come antifascista e combattente in Spagna. Arrestato, trascorre quattro mesi nella prigione della Santé prima di essere interrogato dalla Gestapo. Dichiara di essersi recato in Spagna per lavoro, e si salva solo perché i tedeschi in quel momento sono interessati soprattutto a mettere le mani sugli intellettuali antifascisti, scrittori propagandisti o giornalisti, e si accontentano della sua versione dei fatti senza svolgere ulteriori indagini. Nel corso della guerra perde il figlio che, deportato a lavorare in Germania, non fa più ritorno. A differenza di molti altri compagni non prende parte alla Resistenza, che rifiuta come tutte le altre guerre, in quanto ai suoi occhi si tratta pur sempre di schierarsi dalla parte di uno Stato contro un altro Stato. Nel 1946, dopo la Liberazione, è arrestato per l’ultima volta e sconta quattro mesi di carcere per avere cercato di occultare alcune armi passategli da un ex resistente, figlio del suo datore di lavoro. Partecipa a riunioni e convegni sia in Francia, sia in Italia, compreso il Congresso internazionale anarchico di Carrara del 1968. L’ultima forma d’impegno è l’assistenza prestata agli esuli politici italiani a Parigi negli anni ’70 e ’80, particolarmente dopo che la morte della moglie lo lascia libero di disporre interamente della sua casa di Suresnes, alla periferia della città, e dei magri risparmi. Muore in un ospedale di Parigi l’8 maggio 1991. Razionalista e libero pensatore, lascia il suo corpo alla medicina e viene poi cremato.