Volontà 1962-1979: dalla crisi al rinnovamento
di Francesco Codello
fonte: «Volontà», numero speciale Cinquant’anni di Volontà. Indici 1946-1996, Milano 1997
“È l’augurio che formuliamo, in quest’alba grigia del 1962, è che ognuno di noi si ricordi di essere anarchico e che cosa questo comporti di lavoro, di studio e di lotta” (editoriale a firma V., Costruiamo l’avvenire, XV, numero 1, gennaio 1962). In questo augurio è contenuta la filosofia del gruppo che anima questa rivista anarchica e la sua animatrice principale, quella Giovanna Caleffi Berneri cresciuta all’interno di un anarchismo sviluppatosi e delineatosi a cavallo tra l’esilio causato dal regime fascista, la stagione tragica ed eroica della Spagna rivoluzionaria e la caduta completa e definitiva di ogni speranza di cambiamento radicale e libertario che l’illusione rivoluzionaria dell’Ottobre russo aveva alimentato. Si tratta di un anarchismo che aveva perso anche la pur flebile speranza che l’avvento dei sistemi democratici aprisse una stagione di spazi e possibilità di rinascita di un movimento che aveva visto le proprie fila assottigliarsi a causa dell’alto prezzo pagato alla coerenza con i propri valori e che i sistemi totalitari prima e il trasformismo pseudo-riformista poi hanno fiaccato e disperso. “Volontà”, in questi anni che precedono l’avvento del centrosinistra, raccoglie però tra i suoi collaboratori il meglio dei contributi non solo italiani (Louis Mercier Vega, José Peirats e altri) e si caratterizza per riflessioni, analisi e proposte che toccano i temi principali di moderne battaglie civili come l’antimilitarismo e la disobbedienza civile, l’anticlericalismo e la denuncia del ruolo del potere del Vaticano sull’intera società, l’attenzione critica per le esperienze dei kibbutzim in Israele, la battaglia per un controllo delle nascite e per l’emancipazione della donna, la denuncia delle svolte autoritarie ormai imperanti nei paesi del socialismo reale, anche in quelli più recenti come Cuba. Questa rivista si colloca dunque all’avanguardia nel panorama culturale e politico italiano interpretando molto bene il ruolo di una pubblicazione anarchica che sa dialogare e confrontarsi con le espressioni più vive e intelligenti di altre culture prossime a quella libertaria. Con la scomparsa dell’“anarchica senza aggettivi” avvenuta il 14 marzo del 1962 è indubbio che anche la rivista ne subì un duro contraccolpo. La morte di Giovanna Caleffi Berneri viene annunciata su “Volontà” con un articolo (numero 4, XV, aprile 1962) di Umberto Marzocchi, compagno di tante battaglie, non solo spagnole, di Camillo Berneri, che si conclude così: “Oggi il cuore ed i sentimenti sono ancora sconvolti e non possiamo colmare nella giusta misura il vuoto immenso causato dalla irreparabile perdita”, ma la rivista “Volontà” da lei fondata “ne continuerà lo spirito e la memoria”. Dal numero 11 (XV, novembre 1962) la redazione della rivista passa a Giuseppe Rose a Cosenza, l’amministrazione ad Aurelio Chessa a Genova, mentre il redattore responsabile è sempre Pio Turroni (lo è dalla fondazione nel 1946 fino alla morte nel 1982). Accanto ad Alberto Moroni, Claude Cantini, Virgilio Galassi, Mario Dal Molin, troviamo in questo tempo che precede gli anni Settanta altri assidui collaboratori come Piero Riggio, Pier Carlo Masini, O. Sergi, Ugo Fedeli, P. Villella, Eugène Relgis, Gionata, Victor García, Giorgio Bianchi, Leonardo Eboli, Emilia Rensi, Giovanni Baldelli, Carmelo R. Viola, Luciano Ferraresi, Domenico Demma, e molti altri. L’indirizzo della rivista rimane sostanzialmente lo stesso. Forte resta l’attenzione per la propaganda e la diffusione di temi e battaglie per alcune cause come il pacifismo e l’obiezione di coscienza, la denuncia delle repressioni nella Spagna franchista e nel regime cubano, le critiche all’esperienza del centro-sinistra che in quegli anni si sviluppa e in particolar modo ai socialisti che di questa situazione governativa sono protagonisti. Non mancano le analisi e le contestazioni allo stato e al governo ritenuti responsabili del peggioramento delle condizioni lavorative e anche di tragedie come quella del Vajont. Ma accanto a temi di più stretta attualità compaiono contributi che riabilitano l’individualismo anarchico contrapposto a tendenze ritenute eccessivamente organizzatrici. Diversi sono gli articoli che si occupano di educazione libertaria e che valorizzano la psicologia come scienza innovativa e importante per capire l’evolversi della società umana. Il carattere essenzialmente pluralistico degli argomenti affrontati non intacca però la matrice fondamentale della rivista che rimane legata a quel filone dell’anarchismo che si sforza di inserire nella tradizione dei classici dell’anarchismo anche nuovi contributi culturali libertari e non militanti in modo da mantenere aperto un dibattito con forze ed esperienze che non sono assimilabili strettamente al movimento, ma che ne possono costituire un terreno di scambio e confronto positivo. Dal numero 8/9 (XV) dell’agosto-settembre 1963 comincia la pubblicazione della prima traduzione italiana del testo di William Godwin Indagine sulla giustizia politica a cura di Gionata e sempre allo stesso collaboratore dobbiamo peraltro, a partire dal 1964, la divulgazione e la diffusione delle idee e delle esperienze di Alexander S. Neill e Wilhelm Reich, a testimonianza proprio del fatto che tradizione e attenzione ai fermenti più libertari della cultura contemporanea trovano nelle pagine della rivista spazio e attenzione. È questo uno sforzo enorme se pensiamo che le fila del movimento anarchico italiano negli anni Sessanta sono molto ridotte e subiscono lacerazioni e scissioni anche significative e non certamente indolori, come la nascita dei Gruppi di Iniziativa Anarchica (GIA), che si separano dalla Federazione Anarchica Italiana (FAI). Questo bisogno di interrogarsi sui problemi dell’anarchismo e in un certo senso di dare risposte nuove a domande di sempre, emerge da una Inchiesta sull’anarchismo che appare a partire dal numero 7 (XVI) del luglio 1963 e che si articola su cinque quesiti ripresi dal periodico messicano “Tierra y Libertad”. Le domande sulle quali si chiede di aprire la discussione sono: 1) Perché, internazionalmente considerato, l’anarchismo ha perduto tanta influenza nel movimento operaio? 2) Nel campo generale del pensiero attuale, quali sono le influenze dell’anarchismo? 3) Perché le moltitudini dell’intero mondo non hanno accusato ancora, in maniera visibile, l’urto delle nostre idee? 4) Davanti alla tragica divisione attuale dei grandi blocchi in lotta, l’anarchismo può rappresentare quella terza forza alla quale si anela? 5) Di fronte alla psicologia generale dei popoli e dei poteri che li governano, quale attitudine dovrebbe adottare l’anarchismo per accelerare la realizzazione dei suoi obiettivi? Rispetto alla prima questione gli interventi sono molteplici e diverse sono anche le valutazioni e le analisi anche se tutti, sostanzialmente, concordano sul fatto che effettivamente il movimento anarchico e le idee libertarie hanno perso terreno all’interno del movimento operaio. Le ragioni di ciò vanno ricercate, secondo Victor García (numero 7, XVI, luglio 1963), innanzi tutto su un ostentato “purismo” ideologico di parte dei militanti anarchici che ha prodotto un indubbio isolamento accanto all’incapacità di conciliare un progetto generale (strategia) con un altrettanto necessario approccio più gradualista (tattica). Ma vi sono anche ragioni esterne al movimento e che trovano l’espressione più vistosa sulla enorme capacità di attrazione che la rivoluzione russa esercitò sul movimento operaio internazionale che fece sì che le idee bolsceviche divenissero le più diffuse proprio all’interno del movimento operaio internazionale. Unitamente a ciò bisogna sottolineare la conseguente scelta riformista del sindacalismo dei paesi nei quali prevalse la scelta social-democratica e l’avvento delle dittature demagogiche e populiste, la mancanza di coesione e di unità all’interno del movimento operaio stesso e l’opportunismo del sindacalismo puro trasformatosi da mezzo a fine. Sul ruolo del potere politico, dittatoriale in alcuni casi e social-democratico in altri, nel reprimere o nello strumentalizzare le istanze dei lavoratori, insiste Campio Carpio (numero 8-9, XVI, agosto-settembre 1963). Il movimento operaio si è imborghesito attraverso un’azione continua e incessante operata dal sistema occidentale tanto da fargli perdere l’obiettivo strategico a favore di lotte e conquiste di più immediata soddisfazione. Ma ciò che veramente, secondo Carpio, determina la mancata influenza del movimento anarchico su quello operaio è la radicale trasformazione che ha subìto “l’individuo anarchico”. Il militante non è più il mitico eroe dell’Ottocento (con il culmine dell’epopea della Spagna della rivoluzione del 1936) che alza la fiaccola contro le miserie enormi e le ingiustizie sfacciatamente palesi, ma colui che fa i conti con una società più ricca, con più generalizzato e diffuso benessere che intorpidisce le coscienze e allontana la prospettiva rivoluzionaria. Occorre pertanto formare una nuova coscienza e una nuova cultura antagonista. Sostanzialmente sulla stessa lunghezza d’onda l’intervento di E. G. Fontaura apparso sullo stesso numero, con una sottolineatura sulle cause interne e sulle divisioni che hanno caratterizzato il movimento anarchico. Gianni Furlotti (numero 10, XVI, ottobre 1963) evidenzia la crisi generale del movimento che non ha saputo adeguare le sue strategie e resta ancora prigioniero di una concezione ottocentesca della lotta sociale non adeguata ad affrontare le disuguaglianze prodotte dalla società capitalistico-democratica. Mancano altresì figure di riferimento e leader capaci di analisi e di delineare scenari e strategie di lotta che vadano al di là del contingente e sappiano leggere l’evoluzione della società secondo un’adeguata interpretazione storico-ideologica. Anche Enzo Santarelli (numero 11, XVI, novembre 1963), seppur con una prospettiva ideologica diversa, affonda la critica sull’inadeguatezza che l’anarchismo rivela nell’affrontare problemi nuovi adoperando chiavi di lettura superate tutte focalizzate su un tratto psicologico che si concentra sul passato e sul futuro saltando completamente la dimensione del presente. Santarelli sostiene che l’anarchismo è spesso estraneo al mondo concreto e ai suoi problemi con un impegno non concentrato sui grandi problemi che interessano le grandi masse popolari. D’altro canto, la sua dichiarata fede nel marxismo lo porta a sostenere anche che, oltre a una maggiore consapevolezza storica, gli anarchici dovrebbero preoccuparsi meno delle divisioni con il socialismo marxista e ricercare terreni di incontro e di confronto. Dopo quest’ultimo intervento, in parte poco pertinente con il tema trattato, va registrata l’opinione di Ugo Fedeli che riporta la discussione all’interno del solco tradizionale dell’anarchismo. Fedeli denuncia il troppo facile rinchiudersi all’interno con un ripiegare, di fronte alle evidenti difficoltà, su atteggiamenti di strenua rigidità che isolano il movimento dalla vita quotidiana delle masse lavoratrici. Il sindacalismo più radicale e di rottura, dettato dalle condizioni storiche, era terreno proprio e fecondo per accogliere le istanze di azione diretta propugnate dagli anarchici. La pratica riformista del sindacalismo contemporaneo e le tendenze più liberali e aperte di una parte dell’imprenditoria hanno fiaccato le parole d’ordine e l’intero movimento rivoluzionario. L’azione sindacale si occupa di allargare il proprio spettro e campo d’intervento toccando l’intera vita dei lavoratori e offrendo loro appetibili e immediati riscontri positivi. All’interno di queste mastodontiche organizzazioni di consenso non vi è proprio più spazio alcuno per gli anarchici, ma non bisogna, secondo Fedeli, confondere equiparando il movimento sindacale con il movimento dei lavoratori. Ma le cause sono da ricercarsi anche e soprattutto all’interno dello stesso movimento operaio che, secondo Serafín Fernandez (numero 1, XVII, gennaio 1964), ha perso lungo la sua storia le istanze più genuinamente libertarie per abbracciare le idee riformiste e marxiste e oggi è assimilato per la stragrande maggioranza ai loro valori. A sostegno di queste affermazioni arriva, con un’analisi storico-geografica anche l’intervento di Gaston Leval (numero 6, XVII, giugno 1964) che con osservazioni acute ripercorre l’evoluzione del movimento operaio e in parallelo del movimento anarchico contestualizzandoli nelle differenti realtà storiche e geografiche. Al dato incontrovertibile della perdita di influenza che in alcuni paesi l’anarchismo ha manifestato aggiunge in conclusione la necessità di non rammaricarsi ma piuttosto di rivedere a fondo le idee e le teorie sulla tattica e sulla sua applicazione. “Di fronte alla conclamata modificazione delle condizioni di esistenza dei salariati, di fronte alla comparsa dell’elemento sicurezza che lo stato va svolgendo nelle nazioni economicamente sviluppate e in via di sviluppo, non può propagandarsi con successo il mutamento violento della società. Nel passato, quando tale programma poteva corrispondere alla realtà, l’anarchismo, tranne che nella Spagna, non seppe realizzarlo. La lotta di classe, cioè il contrasto che credemmo fatale sino alla lotta mortale tra il proletariato e il capitalismo, s’è attenuata, e continuerà ad attenuarsi, sicché lo schiamazzo degli accaniti proletaristi non muterà in nulla la realtà, davanti alla quale mi rifiuto di chiudere gli occhi”. Senza un’analisi rigorosa di questa realtà, del fatto che spesso produttori e consumatori non coincidono soprattutto nelle società a capitalismo avanzato, “corriamo il pericolo fondato di ripetere sterilmente la pubblicistica tradizionale e di non comprendere perché, internazionalmente considerato, l’anarchismo abbia perduto tanta influenza”. Un tentativo di spiegazione psicologica è offerto da Mario Dal Molin (numero 5, XVIII, maggio 1965) secondo il quale la perdita di influenza dell’anarchismo sul movimento operaio è da ricercarsi nella tendenza che molti esseri umani manifestano di profondere il minimo sforzo (la delega e il riformismo) rispetto a lotte rivoluzionarie. Le masse sono attratte da miglioramenti certi e immediati e poco disponibili, tranne in determinate situazioni storiche e politiche, a grandi sconvolgimenti. L’atto di accusa alla burocratizzazione sindacale esistente e alla necessità che gli anarchici tengano fede ai loro principi di autonomia sindacale e di azione diretta caratterizza l’opinione di Italo Garinei (numero 1, XVII gennaio 1965), mentre il Gruppo Liberté di Marsiglia addebita alle tendenze pacifiste e individualiste e alla scarsa uniformità degli anarchici il distacco delle masse operaie dalle idee rivoluzionarie. Con la firma “Senso e Non Senso” si liquida la questione in modo lapidario: “Voi siete i puri del movimento operaio, ma avete perduto efficacia per la purezza delle vostre idee” (numero 7, XIX, luglio 1966). Risposte che vadano a dare una spiegazione esaustiva come si vede non ci sono, ma mettendo insieme i vari interventi è possibile avvertire che forte, e a volte quasi rassegnata, è la consapevolezza che esista di fatto una scarsa influenza del movimento anarchico sul movimento operaio e che occorra rivisitare e aggiornare le strategie di intervento sull’intera società. L’anarchismo militante, perlomeno in quella parte che poteva sentirsi rappresentata da questi interventi, è impreparato ad affrontare e a rinnovare, con nuovi metodi e più aggiornate chiavi di lettura, il proprio modo di stare dentro i processi storici pur essendone inevitabilmente fuori. Una volta constatata la scarsa presenza delle idee libertarie nel movimento operaio va da sé chiedersi dove l’anarchismo sia attivo, in quali ambiti del pensiero faccia sentire la sua influenza che secondo Serafín Fernandez, un po’ ottimisticamente, vede inevitabilmente presente in ogni area del pensiero contemporaneo (numero 1, XVII, gennaio 1964). Molto più propriamente Victor García, nello stesso numero di “Volontà”, pone il problema rovesciando i termini della questione: infatti è più obiettivo e corretto indagare su come i principi fondanti dell’anarchismo possano influenzare il pensiero attuale, giacché non è coerente attribuire a pensatori moderni e classici conclusioni teoriche e pratiche che sicuramente non hanno elaborato derivandole dal pensiero anarchico. I pensatori che oggi si ritengono di area libertaria hanno costruito i loro percorsi culturali prescindendo dalle concezioni anarchiche così come è avvenuto in esperienze concrete di realizzazioni pratiche. Le istanze di libertà, di solidarietà e di giustizia e gli altri valori dell’anarchismo, crescono spontaneamente dentro l’animo umano a prescindere appunto dal movimento libertario. Che deve perciò rinnovarsi o sarà destinato a scomparire. Ma il pensiero anarchico e la sua influenza è quello che promana dalle varie organizzazioni o è piuttosto quello formatosi attraverso l’elaborazione ideologica dei pensatori anarchici? È quanto si chiede Fedeli (nel medesimo numero della rivista). In altri termini possiamo constatare come sia una piccola cosa l’influenza che riesce a esercitare il movimento, ma che invece sia da notare che mai come oggi, di fronte al fallimento del fascismo e del bolscevismo, le idee anarchiche hanno una grande influenza e una grande attualità. Mentre il movimento rappresenta un’arma di lotta politica e quindi limitata e circoscritta, il complesso del pensiero libertario viene da un’azione e da un lavoro molto più vasto e articolato e può raggruppare e coinvolgere uomini e donne di mentalità diverse e interessi molteplici senza alcun legame organizzativo politico. L’influenza del pensiero anarchico è visibile non tanto nel numero di persone che ne accettano l’etichetta, sostiene Fedeli, ma nella presenza sempre più allargata di uomini di pensiero e di lavoro che difendono e sostengono le idee e le esigenze fondamentali dell’anarchismo: “con tutto questo, senza fallaci illusioni noi siamo e restiamo una minoranza e la nostra forza sta proprio in quel fermento libertario che da essa scaturisce ed è come il lievito, che pur entrando in piccola quantità nel pane, resta però la sostanza che lo fa levare, che lo rende mangiabile e buono”. Sull’universalità dell’anarchismo (inteso come insieme di idee, valori e di esperienze) insiste anche Gianni Furlotti (numero 4, XVII, aprile 1964) così come Luís Castro (numero 11, XVII, novembre 1964), prevedendo, un futuro sempre roseo per l’idea anarchica. Lo stesso ottimismo dimostra Piero Riggio rintracciando nel rifiuto del livellamento e dell’uniformismo e nell’esplosione di tendenze all’individualizzazione e alla differenziazione in sociologia e soprattutto in pedagogia, segni evidenti di influenze libertarie. Di altro tenore l’opinione di Gaston Leval, (numero 7, XVII, luglio 1964), molto pessimista mette sotto accusa l’intero movimento anarchico incapace di rinnovarsi, ingrandirsi e quindi rafforzarsi di fronte alle nuove tendenze, alle nuove esigenze della società contemporanea: “siamo prigionieri dell’abitudine la quale comporta che non solo il pensiero non si rinnovi, ma che lo stile stesso della nostra propaganda sia improntato al passato, al finito”. Gli fa da controcanto invece l’ottimismo di Italo Garinei (numero 1, XVIII, gennaio 1965) secondo il quale nel pensiero contemporaneo l’anarchismo ha un posto ben definito, anche se la sua influenza non vi appare chiaramente affermata. Tutti gli studiosi dei problemi sociali non possono non tener conto del pensiero dei più noti e profondi pensatori anarchici. Nelle varie risposte agli altri quesiti si ritrovano sostanzialmente le stesse considerazioni fin qui evidenziate. Soprattutto va segnalata la difficoltà di inserire, al di là della riproposizione dei tradizionali mezzi, nuove iniziative tendenti a diffondere e a seminare idee e contenuti libertari all’interno della società occidentale contemporanea che presenta caratteristiche completamente diverse da quella ottocentesca. In pratica si continua a leggere l’evoluzione della storia cercando di forzarne lo sviluppo stando fuori dai processi piuttosto che inserirsi in tutti quei fermenti esistenti dando a essi impulso e prospettiva autenticamente libertaria. Nella diagnosi sicuramente alcuni di questi interventi hanno colto il segno su ciò che probabilmente non serve più fare, ma quando si deve tradurre tutto ciò in comportamenti alternativi o supplementari non si riesce a trovare una via d’uscita. Occorre però sottolineare come invece dalle pagine della rivista si alternino ad articoli certamente poco immediatamente funzionali a quest’opera necessaria di cambiamento, altri contributi che sollevano e propongono con originalità e incisività temi e problemi che saranno poi quelli che animeranno la stagione rivoluzionaria del 1968 e degli anni immediatamente successivi. Un’educazione libertaria, un nuovo rapporto tra generazioni, la libertà sessuale, il pacifismo e l’obiezione di coscienza, il contributo della psicoanalisi e la liberazione della donna, la lotta a ogni forma di autoritarismo e la denuncia di ogni illusione rivoluzionaria autoritaria, la necessità di ripensare la città e il suo rapporto con la campagna, sono alcuni esempi di argomenti che “Volontà” ha sollevato e proposto con forza e con precise e documentate considerazioni alla discussione non solo del movimento anarchico ma all’intero panorama della pubblicistica più innovativa italiana. Si può con certezza affermare che il tentativo di questa rivista, in questi anni che precedono gli avvenimenti del 1968, è quello di fondare una nuova etica e una nuova morale libertaria che si innesti nel tessuto sociale dell’epoca. A questo tentativo non corrisponde però una crescita altrettanto significativa del movimento anarchico che troverà nuova linfa vitale proprio a partire dalla fine degli anni Sessanta. A partire dal 1968 la rivista riduce il numero effettivo delle uscite e dal 1969 diventa bimestrale. Paradosso questo che sembra di difficile spiegazione. In questi anni esplode la contestazione studentesca e operaia, prima in Francia poi in Italia, si riapre una stagione di rinnovato interesse per le idee anarchiche e libertarie, un numero sempre più consistente di giovani si avvicina al movimento anarchico e la rivista più aperta e attenta al nuovo riduce la sua periodicità. La rivolta del maggio francese, la nuova sinistra, le lotte operaie e la nascita delle organizzazioni di base, il dissenso cattolico, le contestazioni e le occupazioni delle scuole europee, la guerra del Vietnam, la questione palestinese, i movimenti provos e hippy, le prime discussioni sulle droghe trovano spazio sulle pagine di “Volontà” ma sempre in posizione più defilata rispetto ad articoli teorici sull’inesistenza di Dio, sul marxismo e l’anarchismo, e così via. La stessa tragica vicenda delle bombe di Milano, della strategia della tensione e della “strage di stato”, del “suicidio” di Giuseppe Pinelli, non occupano che parti minime all’interno delle pagine di “Volontà”. Appare evidente lo sforzo della redazione di leggere gli avvenimenti con un certo distacco (dovuto anche alla periodicità bimestrale e non più mensile) e fornire ai lettori e al movimento libertario e anarchico dei punti di ancoraggio teorici, senza peraltro rinunciare a riproporre argomenti meno tradizionalmente legati alla storia dell’anarchismo ma che irrompono con forza nel più ampio movimento contestatario. Peraltro “Volontà” aveva già proposto con lungimiranza e attenzione, quelli dell’emancipazione dalla schiavitù e dalle fobie sessuali, dei contributi di Reich e Neill nei processi di educazione e liberazione individuale e collettiva, della violenza rivoluzionaria e della non violenza, dell’autogestione nelle esperienze storiche e attuali, della funzione repressiva e secolare del potere della chiesa e dello stato. A partire dal 1971 e fino a tutto il 1972 si può leggere nelle pagine della rivista un filo conduttore marcato che si pone come obiettivo quello di demistificare non solo le esperienze pratiche e storiche ma anche le contraddizioni insite nel pensiero marxista. Le ragioni che sottintendono a questa operazione vanno sicuramente ricercate nella necessità ben avvertita dalla parte più attenta del movimento anarchico, italiano e non, di porre un argine alle contaminazioni del pensiero marxista che tenta, in quegli anni in modo particolare di egemonizzare le nuove spinte giovanili e rivoluzionarie, attraverso l’appropriazione strumentale anche di contenuti e parole d’ordine libertarie. Giuseppe Rose analizza con documentata analisi le aporie del marxismo libertario (dal numero 6, XXIII, novembre-dicembre 1970 al numero 3, XXIV, maggio-giugno 1971); vengono riproposti scritti di Michail Bakunin, Pëtr Kropotkin, Max Nettlau (numero 2, XXIV, marzo-aprile 1971); e aggiornati studi di Roland Bosdeveix e Roger Hagnauer (numero 3, XXIV, maggio-giugno 1971), Jerome Gauthier (numero 4, XXIV, luglio-agosto 1971) sulla Comune di Parigi e contrapposta all’idea marxista di dittatura del proletariato. Viene tradotto un bel saggio di Nicolas Walter sull’anarchismo che affronta in modo pertinente e allo stesso tempo divulgativo tutte le questioni più interessanti l’anarchismo in rapporto alle altre correnti di pensiero (XXIV numeri 1-2-4-5 gennaio-ottobre del 1971). Si segnalano altri contributi sempre tesi a definire le differenze tra anarchismo e marxismo tra i quali meritano di essere menzionati quello di Gaston Leval (numero 4 XXIV, luglio-agosto 1971) e quello di Arthur Lehning su anarchismo e bolscevismo (numero 5, XXIV, settembre-ottobre 1971). Nel 1972, ultimo anno di redazione di Rose, va ricordato il numero speciale per il centenario della Conferenza di Rimini del 4-6 agosto del 1872, dal titolo La rivolta Antiautoritaria (numero 5, XXV, settembre-ottobre 1972) che contiene oltre a documenti dell’epoca su questo decisivo convegno che segna la definitiva rottura tra socialismo libertario e autoritario, scritti di Carlo Cafiero, di Errico Malatesta, Kropotkin, contributi di Gino Cerrito (Le origini del socialismo in Italia: il primo decennio di attività del Movimento anarchico italiano), Rossella Franco (Cafiero tra Engels e Bakunin), Rose (Da Londra a Saint-Imier via Rimini: marxismo e anarchismo a confronto). Questo periodo di intensa attività editoriale dedicata a dare all’anarchismo ciò che è dell’anarchismo e allo sforzo di specificare e definire le caratteristiche di un’idea che non può essere assimilata e mediata con quella marxista, si può concludere (anche se di un anno prima) idealmente con l’intervento di Mirko Roberti (Nico Berti): Dopo un secolo dalla Prima Internazionale (numero 6, XXV, novembre-dicembre 1971) su un tema che diverrà anche uno dei ricorrenti argomenti attraverso il quale in numerose sedi del movimento si porteranno i valori e le idee proprie della tradizione più genuina e coerente dell’anarchismo contemporaneo. A partire dal 1973 e fino a tutto il 1976 alla redazione di “Volontà” si succedono ben tre redattori diversi: Vincenzo Di Maria a Catania (dal numero 1, XXVI, gennaio-febbraio 1973), Aurelio Chessa a Pistoia (dal numero 5, XXVII, settembre-ottobre 1974), Roberto Tronconi a Verona (dal numero 1, XIX, gennaiofebbraio 1976). Anche l’amministrazione con questo ultimo cambio passa a Giovanni Tolu a Genova, mentre Pio Turroni, che di fatto è il riferimento costante e continuo per tutti coloro che si sono occupati di “Volontà” e che raccoglie fin dall’inizio il testimone lasciato da Giovanna Berneri, resta il redattore responsabile. Va ricordato che nel 1974 (numero 6, XXVII, novembre-dicembre 1974) termina anche il lungo sforzo di Gionata che ha tradotto a puntate l’opera di William Godwin Indagine sulla giustizia politica. La rivista perde progressivamente le sue migliori caratteristiche e si isola progressivamente dal confronto culturale e anche dalle novità del movimento. Occorre ricordare però che dal 1971 viene pubblicata una nuova rivista mensile che segnerà profondamente la storia del movimento anarchico, “A rivista anarchica” a Milano, che sostituirà, in modo più attuale e attivo, anche il ruolo che era di “Volontà”. In questi anni che vedono l’espansione non solo numerica, ma soprattutto di attività, iniziative, manifestazioni del rinato movimento anarchico e più in generale l’espandersi dell’area libertaria, questa gloriosa rivista segna un impoverimento evidente nelle collaborazioni, nei temi scelti e nella qualità complessiva fino ad arrivare alla fine del 1976, anno in cui si pone la necessità di un nuovo cambio redazionale. Dal primo numero del 1977 (XXXI), di fatto, e, anche formalmente, dal secondo numero la redazione e l’amministrazione viene trasferita a Valdobbiadene (Treviso) dove opera un attivo gruppo di giovani militanti, con la collaborazione di Aldo Pontiggia, che raccoglie la sfida di non lasciare ai margini della vita politica e culturale questa testata. Il 1977 è l’anno del convegno di Bologna e dell’esplosione dell’Autonomia ma anche di un rinnovato e ulteriore risveglio di un’area libertaria che si pone come alternativa alla sinistra tradizionale e anche ai partitini sorti alla fine degli anni Sessanta. Nel corso di quest’anno già si possono intravedere, seppure ancora in modo sfumato e non sempre puntuale e preciso, i primi tentativi di portare sulle pagine della rivista interessanti contributi di Pierre Clastres, Jean Barrué, Albert Meister, Simon Leys, Marie Martin, Beatrice Giblin (perlopiù traduzioni dalla rivista internazionale di ricerche anarchiche “Interrogations”) e di affrontare in modo attuale le varie problematiche sociali, in particolar modo quelle giovanili. Da ricordare inoltre la pubblicazione di alcune interessanti interviste a noti militanti della rivoluzione spagnola del 1936-1939 (Peirats, Leval, Adam) che ripercorrono, alla luce dell’esperienza storica, le vicende e le speranze e le tragedie che si sono consumate nell’ultimo grande evento rivoluzionario libertario. Ma comincia a emergere la necessità di avviare la rivista “Volontà” a una sua trasformazione che si completerà definitivamente con l’inizio degli anni Ottanta e con il passaggio della redazione a Milano. Il 1978 e il 1979 rappresentano gli antefatti logici e coerenti con lo sviluppo futuro e cioè con una nuova concezione di strumento di analisi e di critica che sappia inserirsi nei vari aspetti della vita culturale cercando di dar voce a quei settori della società e della cultura che maggiormente esprimono istanze libertarie anche se non propriamente anarchiche. Dal primo numero del 1978 vi è anche un radicale cambio di impostazione grafica curata da Ferro Piludu e dal Gruppo artigiano ricerche visive di Roma che anticipa le caratteristiche di un rinnovamento che interesserà anche altre iniziative editoriali collegate in qualche modo a “Volontà”. Sono gli anni nei quali si svolgono i grandi convegni di studio promossi dal Centro studi libertari Giuseppe Pinelli di Milano, nei quali si conclude l’esperienza politico-organizzativa dei GAF (Gruppi Anarchici Federati), delle iniziative del Comitato Spagna libertaria, delle librerie Utopia, della già citata rivista “Interrogations”, della rinnovata formula editoriale di “A rivista anarchica”, del rilancio dell’attività della casa editrice Antistato. Il gruppo redazionale di Valdobbiadene, che è parte integrante di quest’area del movimento anarchico italiano, opera quindi in sintonia con queste iniziative collegando la rivista a queste e portandola fuori dall’isolamento e dalla marginalità. Nel 1978 escono cinque numeri (uno è doppio) che raccolgono contributi, oltre che dei redattori e dell’instancabile Alberto Moroni, di Roberto Simoni, Marianne Enckell, Claude Cadart, Massimo La Torre, Stefano Pendola, Josep Alemany, Luce Fabbri, Claudio Venza, Daniele Madrid, Pier Carlo Masini e altri. Interessante ricordare inoltre i due articoli di due dissidenti cinesi (numero doppio 2-3, XXXII, marzo-giugno 1978) che per la prima volta commentano e smascherano, in una rivista anarchica e libertaria, le nefandezze della dittatura comunista della Cina e un dibattito (nello stesso numero) con Carlo Doglio, Carlo Venza, Gianluigi Pascarella, Gino Fabbri, Francesco Codello, Pio Turroni e Franco Melandri sui temi più attuali dell’anarchismo e delle sue prospettive di lotta. L’analisi che emerge su “Volontà” è quella di una società tecnoburocratica che progressivamente diventa sempre più autoritaria ma che al contempo offre ulteriori ragioni agli anarchici per rilanciare la propria strategia di sempre. Il primo numero del 1979 (XXXIII, gennaio-febbraio) raccoglie due interventi degli atti del convegno internazionale di studi svoltosi a Venezia tra il 25 e il 27 marzo 1978 sui nuovi padroni (Claudio Venza, Forze armate italiane e nuova politica del Pci: appunti bibliografici; Francesco Codello, La valutazione a schede nella scuola italiana) e, oltre a un interessante contributo sui rapporti tra scienza e anarchismo, i contributi più significativi di un dibattito sul leninismo svoltosi alla libreria Utopia di Milano (Luciano Pellicani, Mario Spinella, Oreste Scalzone, Nico Berti). Il numero successivo esce con 96 pagine anziché 80 (numero 2, XXXIII, marzo-aprile 1979) e inizia a riportare interventi sull’autogestione, uno di Noam Chomsky di carattere generale sulla società anarchica, l’altro più specifico sul rapporto individuo-gruppo nella vita delle comuni di Annamaria Pedretti e Giancarlo Varagnolo. In questo numero c’è anche un’analisi del femminismo e dei problemi dell’emancipazione della donna di Rosanna Ambrogetti e una intervista a Cornelius Castoriadis sulla società burocratica. Due interventi (Mauro Alberto Mori, Tra vissuto e ideologia, Antonino Porrello, Comportamento umano e relazioni sociali) costituiscono parte di una ricerca sul movimento di contestazione del 1977 e più in generale sui movimenti giovanili. Il dibattito sull’autogestione, in preparazione del Convegno internazionale di studi su questo tema organizzato dal Centro studi libertari di Milano e dalla rivista “Interrogations” per il mese di settembre, continua sul numero 3 (XXXIII, maggiogiugno 1979) con la documentata e vissuta analisi delle esperienze di autogestione in Algeria scritta da Antonino Porrello, e con la traduzione di un saggio di Ivan Illich, La miseria pianificata. Completa il numero un dossier sulla rinascita della CNT (Confederación Nacional del Trabajo) con scritti di Carlos Semprun Maura e Freddy Gomez. L’anno 1979 si chiude, per quanto riguarda “Volontà”, con un numero doppio (numero 4-5, XXXIII, luglio-ottobre 1979) interamente dedicato al tema dell’autogestione e che raccoglie alcuni tra i più interessanti materiali che saranno oggetto di confronto al convegno sul medesimo tema svoltosi a Venezia tra il 28 e il 30 settembre. Piero Flecchia, Jorge Canovas, Ruben Prieto, Stephen Schecter, Derek W.J. Miles, Leopold Khor, Antonino Porrello, Franco Crespi offrono su questo tema abbondanti spunti per la discussione affrontando le problematiche da diversi punti di vista e su molteplici aspetti. Come si può capire, “Volontà” è ormai parte integrante di un progetto più ampio di rinnovamento del pensiero anarchico che avrà la sua naturale evoluzione, per quanto riguarda questa storica rivista, negli anni Ottanta e Novanta.